28 aprile 2006

Gli effetti della democrazia borghese in Iraq

Due righe sulla "liberazione" della donna irachena da parte dell'Occidente,
A presto

Gigi & Rossi

-------Messaggio originale-------

Data: 04/28/06 10:52:07
Oggetto: [wilhelm_wolff] Iraqi women forced into sexual slavery since war


http://www.hindustantimes.com/news/181_1682078,00050004.htm

Iraqi women forced into sexual slavery since war

Agence France-Presse

Washington, April 24, 2006


More than 2,000 Iraqi women thought to have been forced into sexual slavery have gone missing since the 2003 overthrow of Saddam Hussein, a women's group told Time magazine.
The Organisation for Women's Freedom in Iraq, based in Baghdad, based its figure on anecdotal evidence and the magazine said no one knew the true figure because of the country's troubles.
The issue of Time that goes on sale on Monday quoted a Western official in Baghdad, who monitors the status of women in Iraq, as saying that the figure may be inflated while admitting that sex trafficking has become a "serious issue".
A US State Department report on human trafficking released in June 2005 said that an unknown number of Iraqi women and girls had been sent to Yemen, Syria, Jordan and Gulf countries for sexual exploitation.

21 aprile 2006

Il Nepal

http://smart.tin.it/rancinis/nonepal.html

Inoltra: Rif: richiesta film "Il leone del deserto"

Carissimi, per correttezza vi giro la mia risposta al Sig. Raphael d'Abdon che ci ha proposto la proiezione de "il leone del deserto" a Udine.
Un abbraccio a tutte e tutti
Gigi

-------Messaggio originale-------

Data: 04/21/06 10:37:58
Oggetto: Rif: richiesta film "Il leone del deserto",

Gentile Raphael d'Abdon,

A nome dell'ass. Kinomètisse accetto volentieri la sua proposta. Saremo felici di partecipare alla manifestazione "Udine Solidale" con la presentazione e la proiezione del film "Il leone del deserto" di Mustapha Akkad. Il film è in formato DVD adeguatamente modificato per contenere I sottotitoli in italiano. Data questa particolarità solamente alcuni lettori DVD ne permettono una buona visione. Per questi motivi siamo soliti portare di persona anche il lettore per evitare spiacevoli sorprese all'ultimo minuto. Non esiste inoltre alcuna prassi per ottenere il film. Noi abbiamo semplicemente comprato il film all'estero (in Korea) dato la sua mancata distribuzione in Italia e in seguito ne abbiamo creato I sottotitoli in italiano. Il risultato è una copia senza fini di lucro dell'originale adeguatamente modificata per supportare I nuovi sottotitoli. Detto questo mi permetto, infine, di precisare due piccoli punti. Uno: la nostra associazione non distribuisce il suddetto film dato che esso non può essere distribuito in Italia. Due: non dirigo l'associazione Kinomètisse che fino ad ora ha sempre preso le proprie decisioni collettivamente.

Spero di ricevere presto sue nuove.
Un saluto sincero

Luigi Di Noia

-------Messaggio originale-------

Data: 04/20/06 09:34:30
Oggetto: richiesta film "Il leone del deserto",

Gentile Luigi Di Noia,

mi chiamo raphael d'abdon e sono un ricercatore dell'Università di Udine.
Le scrivo in qualità di membro del comitato organizzativo della manifestazione "Udine Solidale". US avrà luogo a Udine dal 23 al 25 giugno ed è una festa di musica, appuntamenti culturali, riflessioni, dibattiti e raccolta fondi, giunta oramai alla terza edizione ed organizzato da associazioni, partiti ed enti locali assieme a e per le comunità di immigrati della città.
Venendo al dunque, le scrivo perchè il 24 giugno (sabato) vorremmo inserire nella programma la visione del film "Il leone del deserto", distribuito dall'associazione Kinometisse, da Lei diretta. In effetti il Suo indirizzo di posta elettronica mi è stato gentilmente girato dal Prof. Pietro Basso, che ha recentemente proiettato il film durante i corsi del Master sull'Immigrazione.
Se la nostra richiesta dovesse essere accolta, Le chiedo cortesemente sia di comunicarmi quali sono i formati video disponili (noi disporremo solamente di supporto dvd o vhs) sia di farmi sapere qual'è la prassi da seguire per la richiesta del film.
Le ricordo che qualora Kinometisse accettasse la nostra proposta, il nome dell'associazione verrà inserito tra i vari enti promotori e/o sostenitori di US nel materiale divulgativo dell'evento (poster, volantini, ecc.).

In attesa di un suo cordiale riscontro La saluto cordialmente,
raphael d'abdon


“È quindi di un’immagine nuova dei migranti che abbiamo bisogno.
Un’immagine dei migranti che evidentemente […]
non deve concedere nulla ad un’apologia
meramente estetizzante dell’esperienza migratoria.”

Sandro Mezzadra

"Mi chiedo perché i banchieri hanno problemi cardiaci al momento
dell'arresto e gli extracomunitari mai..."

Stefano Benni

08 aprile 2006

Bella analisi sulle lotte francesi contro il CPE

Carissimi vi invio questo pezzo prodotto dai compagni del c.f.
A presto
Gigi


Sul movimento di lotta in Francia

1. Da circa un mese la Francia intera, dalla sempreviva Parigi alle sonnolenti province, è scossa da un moto di protesta che ha coinvolto centinaia di migliaia di studenti universitari e liceali e ha raccolto –il 28 marzo e prima- la solidarietà attiva di centinaia di migliaia di lavoratori. E’ un moto di protesta imponente, e finora in continua ascesa, che può trovarsi tra breve, però, dinanzi al suo momento della verità, se il governo de Villepin non ritirerà il CPE, la miccia che ha acceso la lotta. Solidali con esso senza se e senza ma, senza accettare cioè in alcun modo la distinzione tra I manifestanti buoni perché educati e legalitari e I casseurs, cioè I più marginali, cattivi da abbandonare alla propria sorte (bastonate e carcere in stile Sarkozy), proviamo qui a ragionare molto schematicamente sul suo significato, sulle sue radici e sulle sue prospettive, cioè sulle nostre stesse prospettive, poiché le “questioni” sollevate da questo moto di protesta sono di carattere generale.

2. Questo amplissimo movimento di lotta ha catalizzato e portato in piazza il malessere delle nuove generazioni francesi d.o.c. Poche settimane dopo l’esplosione nelle banlieues delle nuove generazioni francesi di secondo rango, tali solo “sui documenti” in quanto composte da figli di immigrati. Questo minuscolo dato di fatto ed il carattere eminentemente spontaneo di entrambi I movimenti fanno piazza pulita della predizione centrale di tutta la letteratura sociologica d’accatto secondo cui l’“era della flessibilità”, individualizzando I rapporti di lavoro, avrebbe fatto deperire per sempre la “vecchia” lotta di classe collettiva. Si può toccare con mano, al contrario, quanto fosse radicata nella reale dinamica delle trasformazioni sociali, e per nulla auto-consolatoria, la (nostra) previsione inversa: la generalizzazione della crescente precarietà del lavoro salariato, vera sostanza di classe della “flessibilità”, non potrà che rovesciarsi, prima o poi, nel suo contrario, nella generalizzazione della lotta contro la precarietà.

E lotta è. Nella forma ancora una volta, a smentita delle geremiadi foucaultiane, dell’azione diretta, dell’azione collettiva, della auto-attività e della auto-organizzazione di massa, dello “sciopero” prolungato (per quanto un tale termine possa addirsi alla protesta studentesca), dell’agitazione di piazza. Gli innumerevoli mugugni e timori individuali, privati, e perciò gravati da un senso di impotenza, contro l’incremento senza fine della precarietà e contro la “mancanza di futuro” si sono fusi e trasformati di colpo in una sola, comune reazione, in una sola efficace iniziativa comune che ha ridestato in una massa di giovani la coscienza di quanto è insopportabile il “destino” che li attende (e di cui hanno iniziato a fare esperienza) e, insieme, di quanta forza può esserci –e c’è!- nella lotta di massa realmente partecipata, di quanta e quale capacità d’azione sia contenuta e compressa nella prolungata passivizzazione della “gente comune”, ove scocchi la scintilla giusta al momento “opportuno”.

3. Tale è il significato (non contingente) della attuale protesta francese. Essa è interamente concentrata –sta in ciò la sua forza, e però anche la sua debolezza- sul rifiuto del CPE. Il CPE è il contratto approvato il 9 marzo dal parlamento francese (voilà un ennesimo saggio di cosa sono I parlamenti…) che attribuisce alle imprese di ogni grandezza, non solo a quelle minori che già lo hanno, il potere di licenziare liberamente nei primi due anni del contratto di lavoro I propri dipendenti giovani (fino a 26 anni o, secondo un’altra interpretazione, fino a 28). Non è la prima protesta del genere in Europa: la manifestazione CGIL del 28 marzo 2002 a Roma in difesa dell’art. 18 dello Statuto dei diritti dei lavoratori aveva questo medesimo contenuto. La differenza sta nel fatto che oggi l’epicentro della protesta, in Francia, non è nel proletariato industriale, bensì in un mondo giovanile studentesco trasversale a più classi e, se vogliamo, appartenente in maggioranza alle classi medie. E, forse, nella più acuta percezione che in gioco non è soltanto l’istituzionalizzazione della precarietà nei rapporti di lavoro, ma la precarietà dell’esistenza come destino di vita per un’intera generazione. Génération precarie, génération jetable…Finora il tentativo di de Villepin di dire alla gioventù più istruita e meno marginale: “attenti, non si tratta di voi, bensì dei figli dei proletari, a cui vogliamo dare col CPE una buona opportunità”, non è riuscito. Anche la parte meno deprivata della gioventù francese comincia a sentirsi tirata nel vortice della “parificazione” delle “opportunità” al ribasso.
E di questo effettivamente si tratta. Il turbo-capitalismo mondializzato sta polarizzando senza posa anche le società occidentali, erodendo reddito e status delle classi medie impiegatizie (e di frange non proprio insignificanti delle stesse classi medie accumulative) nella misura in cui non può più esentarle dall’applicazione serrata delle leggi della concorrenza da cui negli anni delle vacche grasse le aveva tenute al riparo. Questo processo si è verificato dapprima negli Stati Uniti, ed ora tocca all’Europa. Non si tratta, evidentemente, della scomparsa dei ceti medi, ma della proletarizzazione di una loro bella quota. E’ il prodotto (inatteso) anche di quella terza rivoluzione industriale imperniata sull’elettronica, che ha semplificato e deprezzato non poche mansioni lavorative a contenuto un tempo “intellettuale” e qualificato, consentendo tra l’altro un loro più agevole trasferimento nei paesi “di colore”. Sui giornali francesi si è letto di un sentimento da nobiltà declassata presente tra i giovani in piazza, e la corrispondente de “il manifesto” se ne è doluta un po’: le piazze piene, ha notato, sono tuttavia cupe, poco gioiose, a differenza che nel ’68…

4. Infatti: non c’è molto da ridere. Da anni, il materialissimo spettro della precarietà, prima di inquietare i sogni dei piccoli borghesi, ha riempito di incertezza e di pene la vita di milioni di proletari, giovani e meno giovani. La riproduzione allargata del capitale alla scala mondiale si va facendo sempre più stentata e gravida di contraddizioni; e nella sua manìa di abbattere i costi di produzione, sempre più gravida di costi per la natura e l’umanità lavoratrice. Non ultimo, tra tali costi, è la cronicizzazione di un tasso di disoccupazione o di occupazione precaria molto elevato. La produzione di una ingente massa di donne e di uomini in soprannumero, superflui, da gettare nella spazzatura ha investito per primi, nel modo più devastante, i paesi dei continenti di colore: tanto il loro mondo contadino flagellato dai debiti, dagli stenti della povertà estrema e dalle malattie, quanto le loro metropoli con le sterminate bidonville pullulanti di emigranti in cerca di sopravvivenza. Ma nella misura in cui l’unificazione del mercato mondiale, ed in esso del mercato del lavoro mondiale, è divenuta, pur con tutte le sue complicazioni gerarchiche, sempre più compiuta ed effettuale, la tendenza ad un livellamento verso il basso del tasso di sfruttamento differenziale del lavoro salariato ha colpito anche in Occidente provocando anche nel centro dell’Europa, una stabile (e cioè slegata dal ciclo economico) precarizzazione della forza-lavoro, in specie giovanile. Nel plebiscitario “no” francese alla costituzione europea vi era l’illusione di potersi tenere fuori dagli effetti della piena mondializzazione della concorrenza capitalistica in corso, di allontanare da sé l’amaro calice del “modello anglo-sassone”. Senonché passati pochi mesi, le implacabili ragioni del capitale internazionale sono tornate a presentarsi sotto forma di una nuova legge sul lavoro francesissima, per giunta peggiorativa della stessa normativa media europea. Un altro addio alla (presunta) “eccezione francese”, dopo quello strisciante alle 35 ore.
I dati di fatto potentemente evidenziati dal movimento di lotta sono a tal punto univoci che pure i massimi specialisti nel camuffamento degli antagonismi sociali fanno fatica a nascondersi dietro il dito. Uno di loro, il sociologo R. Castel, ha descritto nel modo seguente lo stato delle cose:
“Sul piano del mercato del lavoro la situazione è effettivamente grave [e non solo in Francia –n.]. Lo sviluppo del capitalismo attuale non è capace di assicurare la piena occupazione, crea ricchezze ma non la piena occupazione, a differenza di quello che ha fatto il capitalismo industriale del secondo dopoguerra. Allora era possibile arrivare a un compromesso, con la promozione sociale, il diritto del lavoro. Ho parlato nei miei lavori delle persone in soprannumero, degli inutili al mondo. Mi sembra che oggi sia purtroppo sempre più vero. Si diffonde la consapevolezza che c’è gente che non ha posto sul mercato del lavoro, è in soprannumero, ma al tempo stesso tutti devono essere al lavoro, sono esigenze contraddittorie. La destra dice: il solo modo di uscirne è ridefinire cosa è il lavoro, chiamare occupazione forme di lavoro che sono al di qua del lavoro. La sinistra non ha la risposta…” (intervista a il manifesto, 31 marzo).
Verissimo. C’è una contraddizione sempre più stridente tra l’assoluta necessità di trovare lavoro per vivere o sopravvivere, o anche soltanto per continuare a studiare, necessità esaltata dai tagli al welfare state, e la crescente difficoltà a trovare un lavoro salariato che “assicuri” un minimo di stabilità e una remunerazione che non sia al di sotto della media. Ma da cosa dipende tutto ciò? perché è andata per sempre in archivio anche la mera promessa della “piena occupazione” (non parliamo della sua realtà, perché non è mai esistita davvero)? e perché sono venuti meno i vecchi margini di compromesso sociale mentre la “ricchezza globale” prodotta dal capitalismo continua comunque a crescere? Le risposte della scienza ufficiale sono penosamente empiriche o sfuggenti perché non sanno, o non possono, puntare il dito sulla causa di fondo di un tale processo: lo stridente antagonismo tra le forze produttive mondiali in grandissima crescita (per l’incremento della popolazione, per la massa di donne disposte a lavorare fuori dalle mura domestiche, per i livelli raggiunti dalla produttività del lavoro, per l’ulteriore perfezionamento dei mezzi tecnici della produzione, etc.) e i rapporti produttivi capitalistici che li comandano, capaci solo di usare tale sovrabbondanza per abbattere, anche attraverso l’arma di ricatto di uno sterminato esercito di riserva del lavoro, il valore del lavoro vivo onde far ripartire a razzo una produzione di profitti sempre più intralciata dello stesso “iper-sviluppo” capitalistico. La soluzione razionale di tale contrasto di fondo che assume sempre più tratti e dimensioni epocali sarebbe semplice: abbattere il tempo di lavoro di tutti i salariati fregandosene altamente di innalzare i costi di produzione dei beni, anzi, mirando proprio a questo: al miglioramento generalizzato delle condizioni di esistenza di chi lavora, sia con la riduzione della fatica che con l’aumento del tempo disponibile al di là del lavoro. Ma una simile razionalità sociale, preconizzata dal comunismo di Marx, è pura follìa per i capitalisti, e dunque è assolutamente vietato anche solo parlarne, perfino in quella Francia, e perfino da quella sinistra francese, che così a lungo si è pavoneggiata di essere all’avanguardia in materia di riduzione (di un nulla!) degli orari di lavoro.

5. Per quanto si sia qua e là fatta (o tentata) l’analogia con il ’68, il ’68 non c’entra. Non siamo nel mezzo (o alla conclusione) di un ciclo di grande sviluppo. Non ci sono veri margini di redistribuzione dei redditi. Non ci sono processi di mobilità ascendente in atto, né classi operaie candidate all’ingresso in “paradiso”. E non c’è neppure una sinistra disposta a cavalcare la protesta per ottenere “vere riforme di struttura”. Anzi. Il movimento, questo movimento che pure si mantiene entro le regole democratiche, si trova ad essere sostanzialmente privo di una sua “rappresentanza” politica. I socialisti e quel che resta del PCF non sono andati oltre le punture di spillo parlamentari nei confronti del governo di destra. I sindacati si sono rifiutati di dare un carattere realmente generale e militante agli scioperi di solidarietà, catalogando lo sciopero generale richiesto da qualche settore degli studenti come un atto insurrezionale, e perciò da aborrire. E proprio sul ruolo da collaudati pompieri delle direzioni sindacali punta il governo per svuotare lentamente dal suo interno il movimento di lotta o, almeno, per isolarlo nell’ambiente scolastico e lasciarlo esaurire lì dentro.
La protesta del marzo francese ha toccato un punto nevralgico del capitalismo d’oggi: la precarizzazione, la svalorizzazione della forza-lavoro, tanto manuale che “intellettuale”, ed è per questa ragione, non prioritariamente per i calcoli elettoralistici di cui invece si ciancia fino alla nausea, che lo scontro è reale e le possibilità di un compromesso sociale “storico”, duraturo, sono piuttosto ridotte.

6. Nella competizione mondiale l’Europa, e la Francia in essa, arrancano. Non possono perdere altro terreno sia nei confronti del capo-branco a stellestrisce che nei riguardi delle nuove nazioni industriali emergenti dell’Asia. L’euro non ha mantenuto le sue promesse, e quanto più ciascuno dei paesi-membri dell’Unione ha ripreso a marciare per proprio conto come prima, se non più di prima, tanto più urge per ognuno di essi rafforzare i fattori differenziali positivi di competitività (è per questo che il “pacifista” Chirac è arrivato ad esternare la minaccia di uso dell’atomica di fronte ad Africa e Medio Oriente e impegna sempre più attivamente le sue truppe all’estero) e ridurre, per contro, i gap.
In questa corsa sfrenata al profitto i traguardi di redditività da raggiungere sono mobili, si spostano di continuo in avanti. La Francia ha già un grado di flessibilità molto alto, anche nel lavoro dei giovani (tanto per dirne una, vi si contano la bellezza di 800.000 stage di lavoro vero e proprio non pagati… -uscirà in aprile da La Decouverte un libro di testimonianze a riguardo intitolato Sois stage et tais-toi, curato dall’Associazione Génération precaire). Per il 75% dei giovani che si sono affacciati al mercato del lavoro nel 2001 il primo impiego è stato a tempo determinato, il tasso di disoccupazione a tre anni dal diploma è in crescita, mentre la differenza tra il salario medio di chi ha meno di trent’anni e quello di chi ne ha più di cinquanta è del 40% ed il tasso di risparmio degli under-30 è crollato dal 18% al 9% in soli cinque anni… Eppure tutto ciò non basta. Nel campo della flessibilità del lavoro giovanile la Francia è, in Europa, seconda solo a Spagna e Grecia, ma deve fare di “meglio” perché lo stesso primato in Europa è ancora poca cosa quando la competizione mondiale stringe.
Di tutto ciò il governo francese è ben consapevole, e pare attrezzato alla bisogna. Non intende cedere alla “piazza”. Non si danno ultimatum alla repubblica francese, ha urlato de Villepin in parlamento, e gli amici politici più stretti di quello Chirac andato all’Eliseo con l’appoggio di una degeneratissima sinistra, hanno bollato lo sciopero generale come “un oltraggio alla democrazia e alla repubblica”. Lo smarcamento di Sarkozy è solo tattico in quanto prospetta la mera sospensione del CPE fino a quando, con la trattativa non lo si sarà fatto digerire anche ai suoi avversari, magari con l’aiuto di una qualche secondaria modifica dolcificante. Ma per il resto, e cioè per l’essenziale, la politica della classe dirigente è chiaramente definita: impedire una ulteriore generalizzazione del movimento in particolare al cuore del proletariato industriale (di qui i citati anatemi contro lo sciopero generale) e delle giovani generazioni operaie; impedire ogni forma di eventuale saldatura tra i giovani delle università e dei licei e la gioventù delle banlieues, usando contro questa, identificata tout-court coi casseurs e la “violenza”, il pugno duro, e contro i primi il guanto di velluto; fare leva sul lealismo dei dirigenti sindacali, e sul loro timore di una radicalizzazione e generalizzazione del movimento che finirebbe per travolgerli, affinché moderino un movimento già di suo abbastanza moderato, e lo portino al tavolo di una trattativa “costruttiva” con il potere; cercare di mobilitare contro il movimento le aree per ora passive del mondo studentesco e universitario che a buona ragione (per nascita, livelli e settori di competenza, appoggi, etc.) o a torto non si sentono minacciate dal CPE; fiaccare la massa oggi in movimento con la propria determinazione a non cedere, il che porta la cosa per le lunghe, e sfidandola a compiere dei passi ulteriori per i quali non sembra pronta… Divisioni secondarie (e inevitabili) a parte, la classe dominante francese mostra di avere una sua politica, che la “machiavellica” proposta di Chirac ben compendia: non mettere in discussione la legge tanto contestata, affinché sia chiara qual è la direzione di marcia in cui andare e chi deve avere l’ultima parola su di essa (non certo la piazza), ma nello stesso tempo predisporne una nuova che ne temperi, per il momento, gli aspetti più sgradevoli in attesa di poter piazzare appena possibile anche il secondo colpo.

7. I governanti francesi, oltre che sul fattore tempo, contano anche di poter utilizzare a proprio vantaggio una tendenza presente nella vita sociale e politica francese, e nient’affatto estranea agli stessi movimenti di lotta: quella che attribuisce i mali da cui il lavoro francese è affetto al processo di mondializzazione e alla importazione passiva del “modello neo-liberista” che si pretende, curiosamente, anglo-sassone. Una prospettiva che postula come via d’uscita dai guai del presente un sortir du monde, una specie di sganciamento nazionale (e nazionalista) dalla globalizzazione, ovverosia una nuova coesione sociale, social-nazionale, “alla francese”, in opposizione a un mondo dominato dall’impero a stellestrisce ed ai propri concorrenti (vedi la stessa vicenda Enel-Suez). Le Pen sta concimando da decenni il suolo di tutte le classi sociali, soprattutto di quelle lavoratrici!, con il veleno del “male che viene da fuori”, nel suo caso dall’immigrazione “selvaggia”; ma anche a sinistra e da sinistra (inclusi gli ambienti “alter-mondialisti” di Le Monde diplomatique) si sta spargendo a piene mani un analogo veleno circa le origini trans-oceaniche delle più brutali politiche “sociali”.
Un tale inquinamento, una simile tragica illusione pesa, crediamo, anche nel movimento in corso. F. Dubet, che ha appena concluso una indagine sulle inquietudini dei giovani francesi davanti alla precarietà, ha dichiarato a Le Monde (19-20 marzo): “Nella nostra inchiesta sul lavoro abbiamo trovato pochi salariati per i quali le ingiustizie [sociali] sono dovute al padronato o ai rapporti sociali [capitalistici]. Al contrario molti pensano in termini nazionali [nazionalistici] e ritengono che sia il mondo esterno a minacciarci”. E’ proprio la tendenza, o tentazione, ad uscire “dal mondo” che “spiega il successo del no al referendum sulla Costituzione europea, in particolare tra coloro che si ritengono i perdenti della storia, nei settori tradizionali in crisi o anche negli impieghi statali, i quali pensano che la propria posizione centrale sta per essere erosa”. Ed è sempre a questo che “si collega la strana alleanza [di fatto] tra una piccola borghesia tradizionale e popolare che si sposta verso l’estrema destra e un ceto medio d’impiegati dello stato che si sposta verso l’estrema sinistra”.
Né si può dimenticare la pressoché totale estraneità della Francia alle pur deboli iniziative no war che si sono date e si danno in Occidente contro le nuove devastanti aggressioni all’Iraq e al mondo arabo-islamico. Da un lato, perciò, abbiamo avuto e abbiamo una sequenza di accese lotte “sindacali”, da cui imparare; dall’altro c’è stata e c’è in Francia una vistosa assenza di sensibilità e di iniziativa politica anti-guerra, internazionalista, vi è stata anzi la convergenza plebiscitaria destra-sinistra sull’elezione e sulla politica “anti-americana” (si è visto quanto!) di Chirac, su un no alla Costituzione europea molto ambiguo (a dir poco), vi sono i maneggi d’un certo altermondialismo gallico assai poco “anti-imperialisti”, e così via. Non è tutto oro ciò che viene d’Oltralpe, e non sono da poco le debolezze del “movimento antagonistico”.

8. Lo si può vedere anche dal modo in cui giovani in lotta si stanno apprestando a fronteggiare la situazione.
Ha scritto B. Kagarlitsky: gli studenti del 2006 sono meno radicali, ma anche meno isolati che nel ’68, e la società francese del 2006 è “più di sinistra” che nel ’68. Se ben inteso, lo si può sottoscrivere. Sono dieci anni che in Francia tutte le lotte “sindacali” di un certo peso, dai ferrovieri ai trasportatori, dal pubblico impiego agli insegnanti e ricercatori, ed ora gli studenti, trovano l’approvazione e il consenso della “maggioranza” della società (piccole, ma molto significative, eccezioni, su cui molto ci sarebbe da riflettere: le lotte dei sans papiers e dei banlieusards…), un chiaro segno dell’ampiezza del malessere trasversale a più classi e ambienti sociali. Nonostante ciò il processo di smantellamento dello stato sociale, l’intensificazione dello sfruttamento del lavoro e della precarizzazione dell’esistenza dei salariati, appunto, non sono stati fermati. E’ vero: il movimento di marzo ha sollevato una questione centrale per il presente e il futuro di tutto il mondo del lavoro, ben al di là della Francia; è per questo che la sua azione ha raccolto simpatie e adesioni molto larghe al di fuori del mondo studentesco. Ma cosa si sta facendo per organizzare stabilmente questo enorme potenziale di lotta e saldarlo in un unico fronte? Poco, ci sembra. Che noi si sappia, solo nella “piattaforma di Digione” il movimento ha ricompreso tra le sue rivendicazioni qualcosa di più della mera abrogazione del CPE, chiedendo la cancellazione dell’intera legge chiamata beffardamente delle “pari opportunità”, un incremento della spesa per la scuola e l’assunzione di insegnanti, la revisione della legge Sarkozy sull’immigrazione e l’amnistia per i giovani delle banlieues. Vi è da domandarsi, però, quanto una simile piattaforma, pur insufficiente, viva per davvero dentro il movimento, ne esprima per davvero “l’anima”. Francamente ne dubitiamo, e non ci affidiamo fideisticamente agli ulteriori sviluppi spontanei del movimento stesso per veder colmata questa lacuna.
Alla politica delle forze capitalistiche (unitaria per entro le differenti articolazioni tattiche) va opposta un’altra politica capace di sintetizzare, di organizzare in chiave anti-capitalistica lo scontento che attraversa l’intero mondo del lavoro e degli strati sociali non sfruttatori, saldando in unità la marea dei già precarizzati con quanti ancora godono di “vecchie” garanzie. Una politica capace di guidare verso un compiuto antagonismo la frattura in atto tra le élites economiche e politiche che concentrano il potere di comando sulla vita sociale e la massa dei salariati e dei giovani senza potere (il che non equivale a: impotenti); di attrarre ad una lotta collettiva non più ipnotizzata dalle soffocanti “buone regole” della democrazia, ma finalmente determinata comme il faut, le frange del movimento ed i giovani più duramente marginalizzati che (sbagliando) vedono nella violenza immediata l’unico modo per esprimere la loro (giusta) ribellione, la loro (giusta) percezione che i margini di mediazione con i poteri costituiti si stanno azzerando; di inglobare senza riserve di sorta le attese e le istanze egualitarie ed anti-coloniali degli immigrati e di quanti, discendendo da immigrati, sono francesi solo sulla carta, sempre i primi ad essere colpiti dalle politiche anti-sociali; di collegare la denuncia di tutto l’arsenale delle misure volte a smantellare lo stato sociale e a precarizzare il lavoro con le aggressioni “esterne”, via FMI o via guerra, ai popoli “di colore” in cui il capitale e lo stato francese sono sempre più attivamente coinvolti, solidarizzando con la resistenza anti-imperialista di questi popoli; di protendersi verso i giovani e il proletariato dell’intera Europa, perché se è vero che i lavoratori e i giovani di Francia ci stanno dando da anni lezioni di “dignità”, non è vero invece che altrove si sia “schiavi contenti d’esser schiavi”. Le barriere di categoria, di generazione, di “razza”, di nazione non cadranno spontaneamente, per quanto esplosiva possa essere la spontaneità; e così pure la separazione, sempre più artificiale peraltro, tra la lotta economica e la lotta politica; esse vanno picconate con metodo da un’azione organizzata di avanguardia che esprima la coscienza di trovarci, alla scala mondiale, alle soglie di una grande crisi sociale e politica, la certezza che oggi più che mai non ci sono soluzioni capitalistiche ai mali sociali prodotti dal capitalismo, né tantomeno ci può essere una soluzione francese, “nazionale” alla precarizzazione, al supersfruttamento del lavoro e a tutto il “resto”; c’è soltanto una soluzione globale, mondiale, comunista, e per essa vale la pena battersi –e pazienza se ciò può suonare ancora per un po’ “vecchio”.
Non ci attendiamo che questo movimento sappia colmare d’un sol colpo, e così com’è, la (grandissima) distanza che lo separa da una maturità antagonistica all’altezza di quella dei suoi avversari di classe; ma chiediamo alle sue componenti più vive di cominciare a muoversi in questa direzione, come lo chiediamo (si veda la nostra parallela presa di posizione sui recenti fatti di Milano) a quanti in Italia non hanno abbandonato il terreno della lotta per frequentare le sotto-segreterie dell’Ulivo invocando da loro qualche segnale purchessia di “discontinuità” dalla politica del cavaliere. La lotta in corso in Francia non va lasciata solo, ci riguarda a fondo, così come la storia sociale e politica del movimento di classe e del movimento giovanile in Francia è parte della nostra stessa storia.

1 aprile 2006

04 aprile 2006

Miscellanea anticlericale (nel caso ce ne fosse ancora bisogno)

Santo subito

0. Links

1. Benedetto XVI: un tedesco di guardia ai roghi (La Plebe)
2. Ancora insistono con la "pista bulgara" (Oss. Balcani)
3. Un uomo generoso e un papato disastroso (F. Barbero / Comunità
cristiana di base)
4. Le "Madres de Plaza de Mayo" al Papa sul caso Pinochet
5. Cile e Vaticano: Una pagina imbarazzante (G. Perreli, da L'
Espresso 10 dicembre 1998)

6. «Il primo Papa no global della storia»: l'unanime coro dei
genuflessi politici italiani


=== 0. LINKS ===

LE RESPONSABILITA' VATICANE NEL CONFLITTO BALCANICO: ALCUNI ELEMENTI.
a cura del Comitato unitario contro la guerra alla Jugoslavia [1999]

http://www.cnj.it/CHICOMEPERCHE/sfrj_04.htm

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Pagheremo caro…ma pagheremo tutti?

IL VATICANO NON DA' UNA MANO
Dossier

SOMMARIO
Introduzione
Pagheremo caro… ma pagheremo tutti?
APSA e IOR. Pilastri economici e finanziari del Vaticano
Il particolare ruolo della Mittel SpA
L'inganno dell'Otto per mille
L'esenzione dal pagamento dell'ICI
Quanto costa l'ora di religione?
Radio Vaticana: una radio al di sopra della legge

Dossier a cura di Radio Città Aperta

SCARICABILE ALLA PAGINA:

http://www.contropiano.org/ (sezione "Documenti")

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De Jean-Paul II à Benoît XVI
L'Église catholique et le projet états-unien de « guerre des
civilisations »

Comme il existait un tandem Jean-Paul II/ Ronald Reagan, il existe
désormais un tandem Benoît XVI / George W. Bush. Cependant le nouveau
pape ne devrait pas marquer de rupture avec son prédécesseur, mais
poursuivre un virage qu'il a amorcé depuis plusieurs mois, en sa
qualité de régent de fait du Saint-Siège. L'Église catholique espère
que la croissance démographique de la communauté hispanique lui
permettra de devenir rapidement majoritaire aux États-Unis et de
devenir la religion officielle du nouvel Empire. Elle se propose aussi
d'exclure l'islam de l'Europe pour faire entrer le continent dans la «
guerre des civilisations ». Par Thierry Meyssan

http://www.voltairenet.org/article16943.html

---

Giovanni Paolo II, un grande amico dei Croati

04.04.2005 [Drago Hedl] Dal ruolo svolto nel riconoscimento
dell'indipendenza della Croazia all'appello alla riconciliazione,
pronunciato a Zagabria nel 1994. Papa Wojtyla ha avuto un'importanza
cruciale nella storia recente del Paese, che ha visitato tre volte. I
Croati piangono un padre [NOTA BENE: in questo articolo, profondamente
reticente e politically correct, non viene nemmeno menzionata la
beatificazione dell'arcivescovo nazista Stepinac e si scrive che nel
1994 le Krajne erano "occupate dai ribelli serbi" (sic).]

http://www.osservatoriobalcani.org/article/articleview/4062/1/51/

---

Walter Peruzzi: I crimini di Dio

Negli ultimi decenni la crisi della modernizzazione ha determinato la
crescita delle religioni, prontamente sfruttata da imam, papi e
chierici vari per riproporre la teocrazia e lo scontro con il
razionalismo illuminista ed il pensiero laico. La chiesa cattolica
gode di una fama quanto mai immeritata di santità ed onestà. Dalle
origini ad oggi, si è contraddistinta per la difesa della schiavitù,
le crociate, la discriminazione delle donne, le campagne omicide
contro indios, eretici, atei.
25-02-2006 - 835 letture

http://www.terrelibere.org/counter.php?riga=218&file=218.htm


--- LINK BREVI:


IL PAPA HA `OCCULTATO' L'INCHIESTA SUGLI ABUSI SESSUALI
Una lettera confidenziale rivela che Joseph Ratzinger ordino' ai
vescovi di non svelare gli abusi sessuali su minori perpetrati da
ecclesiastici

http://www.nuovimondimedia.com/sitonew/modules.php?op=modload&name=News&file=article&sid=1238


1978-2003, IL GIUBILEO DEI REPRESSI: I 25 ANNI DEL PONTIFICATO DI PAPA
WOJTYLA VISTI DA UN'ALTRA PARTE
Il dossier rivela tutti i casi di repressione ecclesiale e teologica
disposti, a partire dal 1979, da papa Wojtyla e dai capi dicastero da
lui scelti

http://www.adistaonline.it/speciali/76italiano.pdf


Antonio Gramsci: Il Vaticano
Articolo di La Correspandance Internationale, 12.03.1924

http://www.resistenze.org/sito/te/cu/la/cula5d16.htm


Questo papa non è stato un grande papa - di Tiziano Tussi

http://www.resistenze.org/sito/te/cu/la/cula5d08.htm


I giorni deliranti del lutto mediatico - di Enrico Penati

http://www.resistenze.org/sito/te/cu/li/culi5d06.htm


La morte del Papa. Note inattuali - di Gino Candreva

http://www.resistenze.org/sito/te/cu/st/cust5d05.htm


Funerali del Papa: un episodio di Simonìa massmediatica - Contropiano
10-04-2005

http://www.anti-imperialism.net/lai/texte.php?langue=5§ion=&id=23717


Hans Küng: Wojtyla, il Papa che ha fallito

http://it.groups.yahoo.com/group/aa-info/message/9997
http://www.corriere.it/Primo_Piano/Documento/2005/03_Marzo/26/index_kung.shtml


Ratzinger su Stepinac (Visnjica broj 491)

http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/4370


Lettera a Wojtyla di Don Vitaliano della Sala

http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/4368


L'altra faccia del Papa: l'eredità di Giovanni Paolo II nei Balcani
Another Side of the Pope: John Paul II's Balkan Legacy

http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/4366
http://www.balkanalysis.com/modules.php?name=News&file=print&sid=523


Habemus Europam (aprile 2005)

http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/4378


KAROL WOJTYLA: Tutte le guerre dell'ultimo papa
di TOMMASO DI FRANCESCO da "IL MANIFESTO" del 9 aprile 2005

http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/4424


Il Santo Guerriero - di Enzo Bettiza

http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/4364


=== 1 ===

http://it.groups.yahoo.com/group/aa-info/message/10045

Benedetto XVI: un tedesco di guardia ai roghi

Sullo sfondo di un ventennale conflitto epocale, d'un regolamento di
conti immaginificamente in bilico tra il vecchio western e la guerra
fredda, l'umile lavoratore della vigna del Signore ha conquistato il
feudo più imponente del mondo. E se le luci della ribalta del suo
pontificato non diventeranno fuochi dell'Inquisizione spagnola sarà
solo per limiti tempo. Quel tempo che manca a Joseph Ratzinger, Papa
di transizione, settantottenne pastore tedesco.

::il libro bianco::

Nativo di Marktl, in Baviera, dove la locale pro-loco si affretta a
lucidare, per i turisti della fede, le pagane vestigia della sua vita
precedente (unghie e incrostazioni calcaree comprese), aviatore
tardivamente antinazista, prete negli anni Cinquanta e teologo
successivamente, ex-progressista folgorato sulla via di Damasco,
pupillo delle sette più oscurantiste, cardinale.

Arcivescovo di Monaco di Baviera, come rappresentante in capo della
influente e potentissima "ala tedesca", capeggiò da grande elettore la
nomina di Karol Woytjla al soglio pontificio, opzionato a sorpresa in
quanto papa debole e facilmente manipolabile, adatto alla contingenza
dello scontro interno e perciò stretto come preda tra le ragnatele del
potere ecclesiastico diviso in fazioni.

Da una parte la loggia massonico-curiale, dall'altra la crescente,
inarrestabile Opus Dei, reazionaria e medievale.

È del cardinale tedesco la regia della prima decisa svolta autoritaria
e restrittiva della gestione del polacco. Bersaglio: le suggestioni
conciliari più avanzate, i teologi che - bontà loro - ritenevano il
Vaticano II viatico dell'ecumenismo moderno e - eretici! -
individuavano nelle istanze del Concilio una giusta integrazione del
cattolicesimo con le istanze più moderate del protestantesimo,
un'apertura alla modernità.

Che il Concilio Vaticano II fosse pietra dello scandalo e pesasse -
come pietra - sulle scelte delle fazioni in lotta entro le mura, non è
mai stato un segreto per nessuno. Settori dell'integralismo vi
intravedevano finanche la "morte della Chiesa" e, nell'attesa di
smantellarne i precetti, provvedevano ad eroderne i contenuti.

Capofila della battaglia al riformismo, la santa piovra dell'Opus Dei,
congregazione segreta che annovera Ratzinger tra le punte di diamante.

Nella seconda metà del 1979 la Congregazione per la dottrina della
fede (l'antica Inquisizione) guidata dal cardinale croato Franjo
Seper, dopo aver attaccato il teologo francese Jacques Pohier e
l'olandese Edward Schillebeeckx, trascina sotto processo lo svizzero
Hans Kung, docente progressista presso l'Università di Tubinga. In
cabina di regia: Joseph Ratzinger. Kung, giudicato "deviazionista"
dalla "verità integrale della Chiesa" perse la cattedra.
Ratzinger ipotecò la poltrona di prefetto dell'ex Sant'Uffizio, che
ottenne il 25 novembre del 1981. L'Opus Dei ne gioì vistosamente. Da
tempo il Panzerkardinal aveva avuto modo di farsi conoscere per le sue
tesi anticonciliari ed antimoderniste e, con dalla sua una laurea
honoris causa dell'Università dell'Opus di Pamplona, si era già
meritato il soprannome di Adolf.

::digressione::

Ma i più accorti compagni, da qualche settimana apertamente adoranti
verso ogni feticcio che sappia di potere temporale ecclesiastico,
tirano il freno e mettono in guardia dal giudicare troppo
affrettatamente simili dettagli e dal relegare un pontificato nei
parametri della politica. L'ultimo avviso in tal senso è venuto dal
compagno Nichi Vendola, neo-governatore delle terre di Puglia.
Rispondiamo, ossequiosi come sempre, che costoro non hanno nulla da
temere dal nostro ostinato lavoro di ricerca: solo perché uno è
tedesco, volava con la Luftwaffe, combatteva in tonaca il comunismo
sul fronte orientale, scomunicava i teologi progressisti, rinnegava il
modernismo e nelle cerchie vaticane lo chiamano Adolf, non è detto che
non possa essere un buon papa compatibile con i precetti del
socialismo! (ironia da sottolineare, vista la tristezza che dilaga nel
movimento).

::la scalata::

All'inizio del 1983 esplode, nei ranghi ecclesiastici, la polemica
sulla "deterrenza nucleare" reaganiana. L'episcopato statunitense
gradirebbe una critica aperta del Vaticano alla corsa al riarmo e
nell'attesa fa da sé, con un documento in cui giudica "immorale" la
minaccia nucleare. Gli Usa si irritano. Ratzinger è fuori di sé dalla
rabbia. Chiude a doppia mandata le porte dell'assemblea vaticana e
presiede, accanto al "progressista" Casaroli, una due giorni con
esponenti dell'episcopato europeo, dal quale esce brandendo un
documento che all'unanimità obbliga i colleghi di tonaca americani a
prendere atto della "moralità" della politica di Raegan. Il pastore
tedesco, a margine della sudata, commentò: "Credo che l'etica, per
essere seria, non possa prescindere da un certo realismo".

Il 26 novembre 1983 è lui ad avere l'onore storico di vergare la
parola "fine" nell'antica controversia tra cattolicesimo e massoneria,
infliggendo un colpo semi-mortale alla fazione curiale, da sempre
attiva in Vaticano con metodi che rasentavano l'agire delle Logge. In
pratica il Santo Uffizio di Ratzinger corregge la posizione tollerante
del Codice di diritto canonico woytjliano e ribadisce
l'inconciliabilità tra Chiesa e massoneria. Da quel momento in poi
ogni avversario dell'Opus nelle cerchie infernali del Vaticano potrà
essere etichettato come "massone" e ricevere il benservito tramite
sempiterna scomunica. Colpo di classe.

A distanza di un anno, il 6 novembre 1984, prosegue l'opera di
restaurazione dichiarando pubblicamente chiusa la "primavera
conciliare", madre di decadenza, degenerazioni inaccettabili, fino
alla paventata "autodistruzione": "dopo le esagerazioni di una
apertura indiscriminata al mondo, dopo le interpretazioni troppo
positive di un mondo agnostico e ateo" Ratzinger definisce la
restaurazione "auspicabile" e "già in atto". Ribadirà il tutto,
rincarando la dose, nel suo libro-intervista Rapporto sulla fede,
pubblicato nel maggio del 1985. L'Opus Dei plaude al suo pupillo e, da
quel momento in maniera definitiva, lo candida alla successione di
Woytjla.

Il dissidente Hans Kung commentò: "Per Ratzinger, oggi esiste al mondo
un unico buon teologo: Joseph Ratzinger. È l'orgoglio dell'uomo di
potere che del potere si è impossessato". Ebbe inoltre il tempo, il
silurato Kung, di sottolineare come l'Opus Dei fosse
"un'organizzazione segreta, un'istituzione teologicamente e
politicamente reazionaria, immischiata nelle banche, nelle università
e nei governi, che ostenta tratti medievali e controriformistici"
sottratta al dominio dei vescovi grazie allo status di "prelatura
personale" concessole da Giovanni Paolo II.

Dopo il Sinodo straordinario dei vescovi del 1985, qualcuno osservò:
"è stato seppellito il Vaticano II, ma senza certificato di morte né
funerale". Lo strapotere della fazione opusiana era evidente e
straripante.

Un ex-membro dell'organizzazione scrisse: "Non ci sono dubbi che
l'obiettivo dell'Obra è di conquistare il potere politico, bancario,
militare. Il sogno, la cospirazione machiavellica che muove gli uomini
dell'Opus è di entrare in tutti i gangli vitali della vita del Paese,
per condizionarli".

::la successione::

Nel 1992 il mondo si accorse, suo malgrado, delle precarie condizioni
di salute di Karol Woytjla. Il Sommo Pontefice era malato del morbo di
Parkinson. Quella stessa estate la guida del pontificato venne di
fatto assunta da un direttorio composto da sei eminenti personaggi
della curia: Ratzinger c'era. Con lui Dziwisz, Re, Navarro-Valls,
Sodano e Ruini.

Il 22 febbraio 1996 al febbricitante Pontefice fu fatta firmare la
costituzione apostolica Universi Dominaci Gregis, contenente
innovazioni importanti sul futuro conclave e disposizioni
sull'elezione del nuovo Papa della cristianità, la più importante
delle quali prevedeva l'annullamento del quorum dei due/terzi dei
votanti già alla trentaquattresima votazione. In sostanza si
facilitava l'avvento della maggioranza semplice. E con la pioggia di
Concistori del pontificato polacco, con la nomina di più di un
centinaio di nuovi cardinali a maggioranza opusiana, l'Opus si
garantiva la successione. Semmai ce ne fosse stato bisogno, giacché a
Papa infermo, dal Giubileo in poi, le consultazioni sono avvenute a
Papa vivo, in un clima grottesco e tragico. Ciò giustifica la brevità
da record del Conclave a cui abbiamo assistito per ventiquattro ore.
Un conclave a lungo preparato, preconfezionato, inscatolato dalla
macchina bellica dell'Opus Dei per riaffermare la propria assoluta
padronanza dell'Impero papale e - secondo qualcuno - organizzato senza
un valido avversario dell'aviatore tedesco, per via della debacle
della fazione curiale, residuale dopo il pontificato di Woytjla, il
Papa dell'Opus.

Magari esclusivamente orientato contro le mire del cardinale Carlo
Maria Martini, progressista e innovativo, definito una "sventura"
dalla mafia spagnola togata.

Di cui un suo ex-membro dice: "L'Opus è come una droga, e fa anche
male alla salute mentale. Ci sono molti che hanno perduto la salute
psichica vivendo dentro l'Obra. Ho conosciuto personalmente due casi
di persone che hanno avuto gravissime crisi psichiche, vivendo
nell'Opus."Ho un problema di vocazione, padre", annunciava ogni tanto
qualche giovane socio. E loro, quelli dell'Opus, rispondevano a tutti
nello stesso modo: "Vai a letto, figliolo, e prenditi un Valium".

Seguite il consiglio del buon padre e buon pontificato a tutti.

La redazione di "Plebe" - riverente e foggiana

20 aprile 2005


=== 2 ===

http://www.osservatoriobalcani.org/article/articleview/4059/1/51/

Bulgaria, tra lutto ed indignazione

04.04.2005 scrive Tanya Mangalakova
1981. Attentato al Papa. Emerge una pista bulgara, mai dimostrata. Nel
2002 lo stesso Pontefice, durante una visita a Sofia, nega vi siano
connessioni tra l'attentato da lui subito e la Bulgaria. Ma non basta,
e proprio in questi tragici giorni, la pista bulgara è emersa
nuovamente. Le reazioni in Bulgaria


Tutti i principali media bulgari si sono occupati con servizi speciali
della morte di Papa Giovanni Paolo II, lo scorso 2 aprile. I cattolici
della Bulgaria sono in lutto. In Bulgaria la comunità cattolica
ammonta – secondo il censimento del 2001 - a 43.000 persone circa, lo
0,6% della popolazione. Quest'ultima è concentrata soprattutto nella
città di Plovdiv, Bulgaria centrale, ed ha reagito al tragico evento
con forte trasporto. La maggioranza della popolazione del villaggio di
Rakovski, non lontano di Plovdiv, dove il 90% della popolazione è
cattolico, ha dichiarato di essere pronta e recarsi in pellegrinaggio
a Roma per i funerali del Papa.

Il principale canale della televisione pubblica, BNT 1, ha
ritrasmesso le immagini della visita del Pontefice in Bulgaria, nel
maggio del 2002. "Non ho mia creduto nella cosiddetta "pista bulgara".
Sono molto legato ed affezionato al popolo bulgaro", riferì Giovanni
Paolo II al presidente Georgi Parvanov in quell'occasione.

I media bulgari in questi giorni non si sono solo occupati nel
seguire con attenzione gli ultimi giorni del Papa ma anche del
riemergere delle polemiche – e della pista bulgara - riguardanti
l'attentato che il Papa subì nel 1981. Le autorità bulgare – che
avevano molto lavorato nel 2002 affinché proprio la visita del
Pontefice potesse finalmente cancellare quell'onta che ritenevano
pesasse sull'immagine del proprio Paese – hanno reagito con indignazione.

Così ha fatto ad esempio lo scorso 1 aprile il Presidente Parvanov
che ha dichiarato che "Lo stesso Papa, nella sua visita del 1981,
aveva escluso quest'ipotesi ritenendola un'ingiustizia nei confronti
del nostro Paese".

Il Presidente bulgaro si è detto inoltre sorpreso che quest'ipotesi
sia riemersa proprio due settimane prima della visita ufficiale del
Presidente italiano Azeglio Ciampi a Sofia. "Il governo bulgaro
considera chiusa la questione. Non vi è alcuna connessione tra la
Bulgaria e l'attentato al Papa nel 1981" ha dichiarato ai media locali
Germana Granchova, vice Ministro degli Esteri.

Dal punto di vista giudiziario si era messa la parola fine alle
ipotesi con l'assoluzione in un processo in Italia di Sergei Antonov -
un ex dipendente della compagnia aerea a Roma Balkan Air accusato di
aver partecipato all'organizzazione dell'attentato - per insufficienza
di prove. Il governo bulgaro ha dichiarato comunque di essere a
disposizione per rispondere ad ogni richiesta di informazione, pur
specificando che sino ad ora non ve ne sarebbe stata alcuna.

Documenti segreti

I media bulgari, riprendendo i colleghi italiani, hanno scritto che
l'Italia riaprirà un'inchiesta in modo da venire in possesso dei
documenti riservati delle autorità bulgare sulla questione. I media
bulgari hanno riportato di articoli in Italia dove si affermava che in
questi documenti vi si troverebbero le prove che il KGB sovietico
avrebbe pianificato l'attentato, ed i sevizi segreti della DDR, STASI,
e della Bulgaria, vi avrebbero preso parte.

Secondo Metodi Andreev, in passato a capo della Commissione
parlamentare sui dossier dei servizi segreti, vi sarebbero almeno un
miglio di carteggi tra la STASI ed i servizi segreti bulgari. "Tra
queste ve ne è una dove i servizi segreti bulgari richiedono alla
STASI di fare tutto il possibile per provare l'estraneità della
Bulgaria alla vicenda e per difendere i suoi agenti", ha ricordato
Andreev. Questo, secondo i media bulgari, non proverebbe però nulla:
la Bulgaria avrebbe solo richiesto l'aiuto della DDR per dimostrare la
propria innocenza. Il portavoce del governo, Dimitar Tzonev, ha reso
noto che tutti questi documenti sono a piena disposizione delle
autorità italiane.

La polemica era partita da Berlino. Nei giorni scorsi i media
internazionali avevano infatti riportato che alcuni documenti
rinvenuti nell'archivio della STASI dimostrerebbero il coinvolgimento
di quest'ultima e del KGB e della Bulgaria nell'attentato al Papa. Due
dei principali quotidiani della Bulgara, Troud e 24 Chassa, riportano
però smentite. "Non abbiamo e non abbiamo mai avuto documenti che
rappresentino una prova del coinvolgimento di KGB, STASI o servizi
segreti bulgari nell'attentato a Giovanni Paolo II", ha dichiarato ai
due quotidiani Christian Boos, portavoce della commissione che a
Berlino si occupa del mantenimento dell'archivio della STASI.

Reazioni

Si è scatenata una forte emotività in Bulgaria sul riemergere della
questione. Anche perché questo è avvenuto in concomitanza con la fine
del pontificato di Giovanni Paolo II. I media ne sono stati un fedele
specchio. Il quotidiano Monitor ha scritto nelle sue colonne che i
bulgari non debbono farsi attrarre dalla trappola creata dal giudice
in pensione Ferdinando Imposimato - che a lungo si è occupato del
caso - che non ha mai smesso di diffondere versioni della vicenda che
richiamavano questi archivi della STASI. Troud invece riconduce
l'emersione della pista bulgara al 1982 quando ne parlò per la prima
volta lo statunitense Readers Digest.

Dure le reazioni sempre di Troud ad un'intervista rilasciata da
Ferdinando Imposimato per il settimanale italiano Oggi. "Vi sono
almeno tre grossolani errori del magistrato nell'intervista
rilasciata" si afferma in un editoriale "innanzitutto si afferma che
Dimitar Stoyanov era Ministro degli esteri, ed invece era Ministro
degli interni. Poi Imposimato ha dichiarato che Sergei Antonov – uno
dei tre bulgari sospettati di aver partecipato all'attentato - era un
genrale dei servizi segreti ed invece era un impiegato in una
compagnia aerea, tant'è che ora vive di una pensione di 100 euro.
Imposimato ha inoltre richiesto di incontrare Jordan Ormankov, che in
passato si era occupato in Bulgaria dell'inchiesta ed aveva anche
interrogato Ali Agca, condannato poi per aver sparato al Pontefice, ma
Ormankov è morto ben 3 anni fa. Certa gente per continuare ad avere
emozioni forti sprofonda nel passato. Ma la verità è una sola: quella
sottolineata dal Papa durante la sua visita in Bulgaria del 2002",
conclude al vetriolo Troud.

"Non ho mia creduto nella pista bulgara e questo è stato uno dei
principali motivi delle mie dimissioni" ha affermato durante una
trasmissione su BNT 1 Melvin Goodman, ex membro della CIA nel
dipartimento che si occupava dell'Unione Sovietica. Goodman ha poi
aggiunto che era a conoscenza del fatto che la Bulgaria non fosse
coinvolta nell'attentato. "Il direttore della CIA di allora, William
Casey ed il suo vice, mi ordinarono di produrre alcuni documenti che
potessero addossare le responsabilità dell'attentato a URSS e Bulgaria".

Secondo alcuni commentatori il riemergere di questa questione
potrebbe essere derivato dal tentativo di screditare l'immagine del
Paese alla vigilia della firma dell'accordo per l'integrazione della
Bulgaria nell'UE, prevista il prossimo 25 aprile.

Vi sono stati anche alcuni commenti sarcastici: "Viva la pista
bulgara!" ha scritto sul settimanale 168 Chassa lo scrittore Stefan
Kissiov "Non è una questione ciclica ma eterna. E' tempo di prenderne
atto. Come i rumeni hanno fatto i soldi con Dracula, noi dovremmo
farli con la pista bulgara. Qualche ONG potrebbe investire in un museo
titolato a quest'ultima. Si potrebbero anche vendere cappellini con la
scritta: "Ho sparato al Papa, prossimamente sparerò anche a Berlusconi!".


=== 3 ===

25 anni di pontificato

Un uomo generoso e un papato disastroso

La gara è aperta. Chierichetti di destra e di sinistra, su tutti i
video e su tutti i giornali (le eccezioni quasi non si vedono) stanno
andando a gara nello "straparlare", nel tessere elogi per questo
pontificato che "ha cambiato la storia", "si è aperto a tutte le
religioni", "ha visitato tutto il mondo", "ha parlato ai grandi e ai
piccoli", "si è esposto come un eroe della pace". E chi più ne ha più
ne metta. In tutto questo interessato esercizio di retorica ci sono
parecchie omissioni, numerose menzogne, molte dimenticanze. In questo
modo si fanno tacere i fatti.

La struttura della chiesa

Non voglio certo negare la generosità dell'uomo Karol Wojtyla e le sue
intenzioni sincere. Non stiamo parlando di questo. La sua attuale
sofferenza (a parte l'uso interessato e perverso che ne fa
l'istituzione ecclesiastica) ci inclina al rispetto. Anzi, di Wojtyla
mi è sempre piaciuta la passione, anche se quasi sempre essa è stata
contaminata da una cultura del dominio e della spettacolarità.

I fatti ci dicono che in questi 25 anni il papa ha cambiato tutta la
gerarchia, ma soprattutto ha azzerato la collegialità, soffocandola
sotto la sua immagine imperiale onnipresente e sotto una curia
vaticana onnipotente. I vescovi sono stati ridotti a "caporali di
giornata" perché il minimo sgarro può segnare la destituzione,
l'accantonamento o il prepensionamento. Gli ultimi "frammenti" del
Concilio sono stati sepolti sotto una montagna di documenti vaticani.

Su questioni vitali per la testimonianza del Vangelo nel mondo di oggi
(bioetica, etica sessuale, femminismo, ministero delle donne,
possibilità delle seconde nozze, omosessualità, celibato dei preti,
innovazioni liturgiche .) questo papato ha avuto l'arroganza di porsi
come detentore della verità, lasciando in eredità una serie di
pronunciamenti che potranno degnamente figurare nell'albo familiare
del "cristianesimo criminale".

Ha avuto la spudoratezza di presentare come modello, di proclamare
"santo" Escrivà De Balaguer, un uomo autoritario, amico della
dittatura, sessuofobico. Non parliamo poi di ecumenismo: si dialoga
con tutti, ma da un trono sopraelevato. Il papato ha dovuto
necessariamente "rifare i conti" con l'ebraismo, con l'Olocausto, con
l'islam e le religioni asiatiche. Tutto è avvenuto con toni e
linguaggi diplomatici, ma con l'incessante e sottile richiamo alla
indiscussa "supremazia cattolica". La teologia della compagnia, del
"camminare alla pari" è stata totalmente disattesa. Così pure questo
papato è giunto alla scomunica ufficiale (si pensi al caso del teologo
Tissa Balasuriya) e alla defenestrazione sistematica di teologi, di
preti, di operatori pastorali mentre ha promosso ai massimi livelli
della curia romana un cardinale come Pio Laghi, grande collaboratore
nello sterminio di giovani argentini invisi alla dittatura.

Il sospetto per la libertà di ricerca e di espressione ha determinato
un atteggiamento sacrale (il sacerdozio al centro della chiesa) e
tradizionalistico, sopprimento la ricca pluralità della tradizione
cristiana. Insomma. la "struttura wojtyliana" della chiesa ha prodotto
un'amara macedonia, una velenosa miscela di patriarcalismo, di
sessuofobia-omofobia, di sacralità, di repressione, di oscurantismo.
Né possono bastare solenni confessioni dei peccati passati come
"captatio benevolentiae" se poi non avviene una reale conversione.

Non si dica che ci vorrà un altro papato per riparare i guasti di
questo "papa re e imperatore". Potremmo trovarci qualche brutta
sorpresa nei prossimi mesi. Il gioco della successione è in atto e non
promette nulla di buono. Ma non spendo la mia speranza nel cambiamento
del timoniere. Ci vuole ben altro: è necessaria, a mio avviso, una
generazione di donne e di uomini che prendano in mano la gestione
della propria fede, senza più attendere il permesso, l'autorizzazione
o la benedizione della casta gerarchica. Da oggi, senza attendere un
miracoloso domani.

Il mito del papa della pace

Questa è l'ultima favola: Wojtyla eroe della pace. Non mi sembra che
un papato di pace avrebbe diviso la chiesa in chi è dentro e chi è
fuori, in ortodossi e in eretici, in "naturali" e "contro natura", in
buoni e cattivi, in maschi che possono esercitare il ministero e in
donne che debbono servire, in clero che comanda e laici che
obbediscono. Non solo: un papa di pace non avrebbe toccato la mano,
dato la comunione e benedetto un tiranno assassino come Pinochet.

Gesù, quando incontrava i potenti, parlava chiaro. Se tutti ora
partecipano ai festeggiamenti per questi 25 anni di pontificato, è
perché, tutto sommato, anche i più criminali non si sono sentiti
profeticamente attaccati ed evangelicamente sconfessati dalla retorica
papale. A Gesù i potenti hanno fatto ben altri festeggiamenti a
Gerusalemme e sul Calvario.

Restano le parole del papa nel corso dell'ultima guerra. Parole
decantate da tutti come "straordinaria profezia di pace". Il convegno
annuale di "Missione Oggi", mensile dei saveriani, svoltosi a Brescia
il 17 maggio, ha analizzato le dichiarazioni delle gerarchie
cattoliche sulla guerra. Le conclusioni sono chiare: le gerarchie
cattoliche non sono pacifiste.

L'agenzia Adista, in data 7 giugno 2003, riporta le affermazioni di
Massimo Tosco, uno studioso non sospetto: "Se le chiese non vogliono
sfigurare il Vangelo devono testimoniare con forza la pace, senza
addentrarsi in improbabili distinzioni, dalla legittima difesa alla
necessità di disarmare i dittatori. Le gerarchie ecclesiastiche
all'inizio non erano contro la guerra, ma solo contro la guerra
preventiva. E anche successivamente, quando hanno 'radicalizzato' le
loro posizioni, non sono mai riuscite a dire no alla guerra in quanto
tale: basta leggere le dichiarazioni e gli interventi del card. Ruini,
o i documenti delle associazioni e dei movimenti ecclesiali benedetti
dalla Conferenza episcopale italiana come le Sentinelle del mattino"
(cfr. Adista 25 e 28/03). Lo stesso Giovanni Paolo II, secondo
Toschi,è su questa linea: "Il papa non ha mai pronunciato un no alla
guerra 'senza se e senza ma'; ha invece sempre arricchito i suoi
discorsi di sottili distinzioni ispirate alla dottrina della guerra
giusta, come in occasione del discorso agli ambasciatori accreditati
in Vaticano" (cfr. Adista 7/03). La novità sorprendente è che,
"nonostante queste distinzioni, le parole del papa sono state
interpretate come un no secco alla guerra dai cattolici, che non hanno
tenuto in nessun conto i concetti della legittima difesa o della
necessità di disarmare l'aggressore. Hanno invece, con molta
semplicità, interpretato il Vangelo dalla parte delle vittime",
facendo passare anche il papa per un pacifista assoluto, il che non è
vero.

La speranza che non muore

Oltre le ambiguità e i disastri di questo papato, resta intatta la
speranza. La chiesa imperiale e il cristianesimo del potere sono
giunti al capolinea. Le televisioni di tutto il mondo riempiranno gli
schermi e diffonderanno ovunque le immagini di un funerale faraonico e
di un conclave sacro e storico. Sarà uno spettacolo di grande smalto e
di catturanti emozioni. Solenni liturgie in cui i grandi della terra
faranno adeguata comparsa. I gerarchi vaticani, nelle loro porpore,
annunceranno al mondo che lo Spirito Santo ci regala un nuovo "vicario
di Cristo" mettendo sul conto di Dio la perpetuazione di una
istituzione mondana e oppressiva come il papato.

Sono sicuro che anche nel cuore di qualche cardinale si fa strada una
profonda inquitudine. Bisogna sempre ritornare a Nazareth, sui
sentieri del Nazareno, riprendere il suo messaggio e il suo progetto
di semplicità, di amore e di giustizia. Il resto appartiene alla
storia dei potenti.

Pinerolo, 16 ottobre 2003

Franco Barbero

Associazione Viottoli - Comunità cristiana di base

c.so Torino 288 10064 Pinerolo (To) -- tel. 0121322339 - 0121500820
-- fax 01214431148

info @viottoli.it - http://www.viottoli.it


=== 4 ===

Fonte: Indymedia, Friday, Apr. 08, 2005

Le "Madres de Plaza de Mayo" al Papa sul caso Pinochet

Buenos Aires, 23 febbraio 1999

Signor Giovanni Paolo II

Ci è costato varii giorni il subire la domanda di perdono
che Lei, signor Giovanni Paolo II Wojtila, ha richiesto per il
genocida Pinochet.
Ci rivolgiamo a Lei come ad un cittadino comune perché ci
sembra aberrante che dalla sua poltrona di Papa nel Vaticano, senza
conoscere né aver sofferto in carne propria il pungolo elettrico
(picana), le mutilazioni, lo stupro, si animi in nome di Gesù Cristo a
chiedere clemenza per l'assassino.
Gesù è stato crocifisso e le sue carni lacerate dai giuda
che come Lei oggi difendono gli assassini.
Signor Giovanni Paolo, nessuna madre de1 terzo mondo che
ha dato alla luce un figlio che ha amato, coperto e curato con amore e
che poi è stato mutilato e ucciso dalla dittatura di Pinochet, di
Videla, di Banzer o di Stroessner accetterà rassegnatamente la sua
richiesta di clemenza.
Noi La incontrammo in tre occasioni, però Lei non ha
impedito il massacro, non ha alzato la sua voce per le nostre migliaia
di figli in quegli anni di orrore.
Adesso non ci rimangono dubbi da che parte Lei stia, però
sappia che
sebbene il suo potere sia immenso non arriva fino a Dio, fino a Gesù.
Molti dei nostri figli si ispirarono a Gesù Cristo, nel
donarsi al popolo.
Noi, la Associazione "Madres de Plaza de Mayo"
supplichiamo, chiediamo a Dio in una immensa preghiera che si
estenderà per il mondo, che non perdoni Lei signor Giovanni Paolo II,
che denigra la Chiesa del popolo che soffre, ed in nome dei milioni di
esseri umani che muoiono e continuano a morire oggi nel mondo nelle
mani dei responsabili di genocidio che Lei difende e sostiene,
diciamo: No lo perdone, Señor, a Juan Pablo Segundo.

Asociación Madres de Plaza de Mayo


=== 5 ===

Cile e Vaticano: Una pagina imbarazzante. Caro Pinochet, il papa La
benedice
di Gianni Perreli

da L' Espresso 10 dicembre 1998

A vent'anni dal golpe la legittimazione più calorosa arrivò al
dittatore Augusto Pinochet dalle stanze del Vaticano. 18 febbraio
1993: la privatissima ricorrenza delle sue nozze d'oro viene allietata
da due lettere autografe in spagnolo che esprimono amicizia e stima e
portano in calce le firme di papa Wojtyla e del segretario di Stato
Angelo Sodano. «Al generale Augusto Pinochet Ugarte e alla sua
distinta sposa, Signora Lucia Hiriarde Pinochet, in occasione delle
loro nozze d'oro matrimoniali e come pegno di abbondanti grazie
divine», scrive senza imbarazzo il Sommo Pontefice, «con grande
piacere impartisco, così come ai loro figli e nipoti, una benedizione
apostolica speciale. Giovanni Paolo II.» Ancor più caloroso e prodigo
di apprezzamenti è il messaggio di Sodano, che era stato nunzio
apostolico in Cile dal '77 all'88, e che nell'87 aveva perorato e
organizzato la visita del papa a Santiago, trascurando le accese
proteste dei circoli cattolici impegnati nella difesa dei diritti umani.

Il cardinale scrive di aver ricevuto dal pontefice «il compito di far
pervenire a Sua Eccellenza e alla sua distinta sposa l'autografo
pontificio qui accluso, come espressione di particolare benevolenza».
Aggiunge: «Sua Santità conserva il commosso ricordo del suo incontro
con i membri della sua famiglia in occasione della sua straordinaria
visita pastorale in Cile». E conclude, riaffermando al signor
Generale, «l'espressione della mia più alta e distinta considerazione».

Il Vaticano non rese pubbliche queste missive così partecipi. Né lo
fece Pinochet, che pure probabilmente le aveva sollecitate. Si decise
di mantenerle nell'ambito della sfera privata, per timore che
l'eccesso di enfasi attizzasse nuove polemiche. Ma tre mesi dopo
prevalse la vanità del dittatore. I documenti furono portati alla luce
dal quotidiano cileno "El Mercurio". E furono ripresi da "Témoignage
Chrétien", la rivista francese dei cattolici progressisti. Provocando
«reazioni di rivolta, di tristezza e di vergogna», nel ricordo delle
barbare esecuzioni e delle feroci torture perpetrate dal regime di
Pinochet.

Molti lettori indirizzarono al Vaticano lettere di indignazione. Un
gruppo di preti-operai di Caen diede una risposta particolarmente
risentita all'iniziativa del Papa e di Sodano. Opponendo al commosso
ricordo di Wojtyla «l'emozione davanti alla morte del presidente
Allende e di molti suoi collaboratori; davanti alla retata e al
parcheggio dei sospetti nello stadio di Santiago; davanti alle dita
amputate del cantante Victor Jara per impedirgli di intonare sulla sua
chitarra gli accordi della libertà; davanti alle sparizioni, alle
carcerazioni, alle torture». E la Fraternità e la Comunità Francescana
di Béziert espressero la loro costernazione in modo lapidario:
«Durante il potere di Pinochet Gesù Cristo era crocifisso ancora».

Sentimenti di ripulsa che in Francia si sono riaffacciati dopo
l'arresto a Londra del dittatore. E che subito dopo il recente
incontro in Vaticano fra il cardinal Sodano e il sottosegretario
cileno agli Esteri Mariano Fernandez, visto come un tentativo di
attivare il Vaticano in soccorso di Pinochet, hanno riproposto gli
inquietanti interrogativi che accompagnarono la rivelazione dei
messaggi di auguri. Nel '93, Pinochet non era più il capo dello Stato,
ma solo il comandante delle Forze Armate. E Sodano era tornato già da
cinque anni in Italia dove aveva preso il posto di Agostino Casaroli
al vertice della diplomazia pontificia.

Che ragione c'era di elargire al dittatore riconoscimenti così
entusiastici, coinvolgendo anche il papa in prima persona, per una
ricorrenza non così straordinaria che avrebbe al massimo meritato un
asciutto telegramma di felicitazioni? La risposta, a sentire i
cattolici cileni che lavoravano a Santiago per la Vicaria de la
Solidaridad, un organo della curia che per sedici anni - dal '76 al
'92 - si è battuto contro le atrocità della dittatura, è nel feeling
che, nonostante le tensioni provocate dalle denunce dei sacerdoti
socialmente più impegnati e dagli episodi di cronaca più scabrosi, si
era instaurato fra Sodano e Pinochet.

Nel conflitto fra ragion di Stato e difesa dei diritti umani, pur
senza plateali favoreggiamenti, il nunzio apostolico avrebbe
privilegiato il dialogo con il regime, assecondando l'ipocrita
transizione che provoca ancor oggi nel Cile tante lacerazioni. Negli
inevitabili scontri con Pinochet, Sodano avrebbe badato a difendere
l'istituzione Chiesa più che l'incolumità delle vittime perseguitate
dalla dittatura. Certo, erano tempi tremendi. Ed è probabile che
l'approccio sfumato dell'ambasciatore di Wojtyla sia servito a
prevenire una repressione ancor più spietata. È meno comprensibile
che, come dimostra l'estrema cordialità dei messaggi augurali per le
nozze d'oro, a distanza di pochi anni il Vaticano abbia rimosso le
pagine più tragiche della storia cilena e si sia profuso in attestati
di stima verso il carnefice.

La lunga permanenza di Sodano a Santiago è coincisa con un processo di
spaccatura all'interno della Chiesa cilena. Da un lato le frange più
conservatrici del mondo cattolico facevano quadrato intorno alla
dittatura in nome dell'anticomunismo. Dall'altro gli ambienti più
aperti trasformavano la Vicaria de la Solidaridad nel vero simbolo
dell'antipotere. Una divisione che nelle concitate reazioni
all'arresto del generale affiora ancor oggi. Oltre la metà dei
cattolici cileni teme che la soluzione di processare Pinochet in
patria, per la quale si sta affannando il governo Frei, potrebbe
rivelarsi una beffa alla giustizia. In Cile né la magistratura
militare né quella penale (che anche dopo il ritorno della democrazia
si è ben guardata dall'aprire processi alla dittatura) garantirebbero
imparzialità di giudizio. E si scatenerebbe una nuova ondata di
disordini. Solo un pubblico pentimento di Pinochet - ipotesi
considerata inverosimile - introdurrebbe una nota di distensione,
scongiurando il rischio che i mai sopiti rancori sfocino inaltrettanti
regolamenti di conti.

Da circa sette anni la Vicaria de la Solidaridad, che già dopo il
referendum da cui uscì sconfitto Pinochet nell'88 aveva perso la
funzione primaria, si è trasformata in un centro documentazione.
Attraverso i suoi archivi è possibile ricostruire nei dettagli i
controversi rapporti fra una Chiesa di ispirazione progressista e il
generale che si richiamava anche ai principi della fede cattolica per
giustificare la sua azione disterminio.

Già negli anni Venti la forza della Dc cilena si sviluppa intorno alle
attività umanitarie dei sacerdoti che si schierano al fianco dei
poveri e lottano contro il latifondo premendo per la distribuzione
della terra ai contadini. Una sensibilità immune dagli estremismi
della teologia della liberazione, che nel '70 non ostacola l'ascesa al
governo del socialista Salvador Allende. In quel periodo,
l'arcivescovo di Santiago Raúl Silva Henriquez, cardinale dal '61,
accoglie con benevolenza Fidel Castro che prolunga una visita di Stato
in Cile per 25 giorni, e al momento del congedo gli regala una Bibbia.
Dopo il colpo di stato militare (11 settembre '73), accolto con
moderato sollievo anche dalla Dc nonostante il suicidio di Allende,
Henriquez prende le distanze dal regime. E il 18 settembre, una
settimana dopo il golpe, in occasione della festa nazionale,
impartisce una prima umiliazione a Pinochet rifiutandosi di celebrare
come ogni anno il Te deum davanti alle autorità dello Stato nella
cattedrale, e allestendo la cerimonia in una chiesa meno
rappresentativa. Fonda poi l'8 ottobre, insieme ai responsabili delle
altre fedi religiose, unComitato nazionale per la pace che si scaglia
contro le malefatte del regime. Agli attacchi della stampa e
alleminacce dei golpisti, il cardinale risponde alzando il tiro. E a
Paolo VI, che disgustato dal clima di terrore gli offre sostegno,
risponde che pensa di potercela fare da solo. Se il generale non
allenterà la presa, potrebbe incorrere in una scomunica. Ma Pinochet
stringe sempre più il Cile nella sua morsa. Si allentano le
resistenze, si sfalda anche il fronte religioso. Nel '75 è Henriquez
che chiede aiuto a Paolo VI. Che stavolta si dichiara impotente. La
guerra fredda ha procurato qualche consenso internazionale a Pinochet.

Qualche mese più tardi è il tiranno a tentare un'apertura. Dopo
l'uccisione d uno dei leader dell'ultrasinistra, un gruppo di marxisti
si rifugia nella Nunziatura. E allora Pinochet decide di scrivere al
cardinale: questo è un governo cattolico che vorrebbe buone relazioni
con la Chiesa. Con lei personalmente non ci sono problemi. Il problema
è il Comitato. Il cardinale intuisce che dietro le formalità si cela
un ordine. Il generale non tollera più intralci. E il cardinale finge
di obbedire, senza abdicare ai principi. Scompare il Comitato e al suo
posto, come emanazione della sola curia cattolica, nasce agli inizi
del '76 la Vicaria de la Solidaridad. Un rifugio per le vittime del
regime a cui vengono assicurati patrocinio legale e assistenza medica.

In aperta sfida a Pinochet, pochi mesi dopo l'arrivo di Sodano a
Santiago, Henriquez proclama il '78 anno dei diritti umani in Cile. E
indice un convegno internazionale sulla materia. Sodano si defila. E
quando arriva un messaggio augurale del papa, minimizza attribuendolo
al cardinale di Stato Jean Villot.

I rapporti fra la curia e la chiesa si fanno particolarmente aspri
nell'83, decennale del golpe. Henriquez si spinge a definire inumano
il programma economico varato da Pinochet che applicando le teorie
monetariste dei Chicago's boys ha rimesso in ordine i conti dello
Stato sacrificando però i programmi di assistenza sociale per le
classi meno abbienti. E la giunta militare sbatte in carcere i tre
sacerdoti stranieri che più avevano alzato la voce nelle proteste.
Sodano chiede la loro liberazione. E i tre vengono espulsi.Per evitare
fratture più traumatiche, papa Wojtyla, tramite Sodano, invita i
militari a cercare risposte positive alle condizioni e alle situazioni
di violenza. Pinochet, in cerca di legittimazioni, si dichiara in
sintonia con le aspettative del pontefice: il governo cileno è
impegnato nella creazione di un sistema democratico di ispirazione
occidentale e cristiana; il messaggio di Sua Santità è uno strumento
prezioso per la realizzazione di questi obiettivi. Ma appena sorge
qualche contrasto con la curia di Santiago, si affretta a inviare a
Roma Sergio Rillon, il funzionario governativo per le relazioni con il
Vaticano, che non manca mai di sottolineare l'irritazione del
generale. L'anagrafe dà intanto una mano a Pinochet. Per limiti d'età
va in pensione il cardinale Henriquez. E a sostituirlo viene chiamato
Juan Francisco Fresno, un arcivescovo più in sintonia con Sodano, che
non si sottrarràagli scontri con la dittatura ma li condurrà in modo
meno battagliero.

L'84 per Sodano è un anno vissuto pericolosamente. A Santiago, nella
parrocchia di San Francesco si invoca la punizione divina contro i
torturatori di Stato. Colti di sorpresa, i militari dichiarano guerra
alle frange sovversive della Chiesa. E consegnano a Sodano un dossier
da inoltrare in Vaticano, in cui si proclamano salvatori della patria.

Scoppia poi la grana dei terroristi del Mir, presunti killer del
sindaco di Santiago Carlos Urzia, che attraverso i locali
dell'ambasciata francese trovano rifugio negli uffici della
Nunziatura. È una brutta rogna per Sodano. Anche se il Vaticano non ha
firmato la convenzione sull'asilo politico, ragioni umanitarie
sconsigliano la consegna dei ribelli a un governo che non dà alcuna
garanzia sulla regolarità di un processo. Sodano chiede che ai quattro
venga rilasciato un salvacondotto. I militari si irrigidiscono. E
l'ira dell'ammiraglio José Toribio Merino Castro si scaglia verso
l'obiettivo massimo: il papa, infallibile nelle cose divine, fallibile
in quelle umane

È una mancanza di cortesia, è la prudente replica di Sodano che sulla
sostanza però tiene duro e chiede per la prima volta aiuto legale agli
avvocati della Vicaria, istituzione che ha sempre percepito
pericolosamente estranea alla sua linea diplomatica. Snobbava spesso
le sue ricorrenze, alle quali interveniva l'intero corpo diplomatico.
E secondo i racconti che circolavano nelle comunità ecclesiali,
avrebbe dissuaso un cattolico torturato dal sollecitare l'intervento
della Vicaria. Nel braccio di ferro stavolta è Pinochet a cedere.

Dopo circa tre mesi di battaglie legali, i quattro guerriglieri del
Mir ottengono il salvacondotto e salgono su un aereo diretto in
Ecuador. Ma per Sodano le insidie non sono finite. Il sacerdote
francese Pierre Dubois, parroco de La Victoria (quartiere proletario
della capitale), e Carlos Camus, vescovo di Linares, creano nuovi
attriti col regime, lanciando anatemi dai pulpiti.

Nel 1985 Sodano lancia appelli (ascoltati) per la liberazione
dell'attivista dell'opposizione Carmen Hales, sequestrata e picchiata
da gruppi di estrema destra. Ed entra in rotta di collisione col
governo per gli editoriali anti-Pinochet della rivista cattolica
"Mensaje". Ma dopo il fallito attentato a Pinochet nell'86, Sodano
elabora una strategia della distensione che culmina con la visita del
Papa a Santiago. Ai fedeli che esprimono indignazione, il nunzio
assicura che si tratta di una missione esclusivamente pastorale. Ma
anche se Wojtyla incontra esponenti dell'opposizione, il clou del
viaggio è l'apparizione sul balcone presidenziale del pontefice al
fianco del dittatore. La Vicaria viene invece appena sfiorata. Il Papa
saluta i suoi dirigenti nel cortile antistante, senza mettere piede
nei locali.

Sodano lascia Santiago nel giugno '88. E nell'accomiatarsi si dice
preoccupato per «l'attuale situazione del paese, perché vedo che non
vi è un profondo rispetto degli uni per gli altri.» Cinque anni dopo,
a freddo, il segno del suo rispetto lo riserverà al dittatore.



=== 6 ===

dalla Gazzetta del Mezzogiorno, aprile 2005

I politici italiani unanimi: lascia un segno indelebile nella Storia

ROMA - Giovanni Paolo II lascia un segno indelebile nella storia. I
politici italiani, in interviste rilasciate a vari quotidiani, sono
unanimi nel riconoscere la rilevanza del ruolo giocato dal Papa nei
quasi 27 anni di pontificato e nel sottolineare l'importanza
dell'eredità che lascia al mondo intero per gli anni a venire.

«Questo Papa - dice il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi in
un'intervista a `Il Messaggero' - lascia un segno importante nella
storia, ha riportato in primo piano la dignità e i valori della
persona umana. Ha rotto il velo ipocrita delle ideologie ed è riuscito
con il presidente degli Usa Reagan a sconfiggere il comunismo».
«E' una figura straordinaria -aggiunge il premier- riconosciuta e
amata da tutto il mondo. Il Suo calvario fisico è pari alla Sua
grandezza morale e spirituale».

«La sua eredità - afferma invece Francesco Rutelli in un intervento su
`Europa' - è gigantesca; nessun uomo di Stato del ventesimo secolo è
stato testimone e attore di così grandi e profondi cambiamenti. E
nessuna autorità religiosa è stata così profetica e visionaria, dando
al cattolicesimo il senso profondo del suo significato letterale di
universalità».

«Il primo Papa no global della storia», lo definisce in un'intervista
a «La Stampa» il segretario di Rifondazione comunista Fausto
Bertinotti. «Durante tutto il suo pontificato - spiega il leader del
Prc - Wojtyla ha ingaggiato un corpo a corpo con la modernità. Sia
nell'immersione in essa sia nell'inquietudine di fronte a una
secolarizzazione erosiva dei valori della religione. Qualsiasi cosa
fosse in campo, il Papa l'ha vissuta con lo spirito del militante. Nel
bene e nel male».

«Un innovatore, un coraggioso», per il senatore a vita Giulio
Andreotti. «Adesso - spiega sempre a 'La Stampa' - si vuole
politicizzare tutto, e anche in modo sbagliato. Se c'è una persona che
sfugge a queste classificazioni è proprio questo Papa, che è nello
stesso tempo conservatore nella tradizione, ma anche capace di
aperture enormi in tanti altri campi».
«Ha fatto fare alla Chiesa dei passi giganteschi. Per esempio penso
alla revisione della posizione della Chiesa su Galileo. E poi alla
pacificazione con gli Ebrei, all'apertura in dialogo con l'Islam. Un
uomo estremamente moderno».

Insomma, sintetizza a «Il Messaggero» il sindaco di Roma Walter
Veltroni, «un esempio per credenti e non».






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Sesto S. Giovanni, 7 aprile 2006
presentazione del libro di J.T. Marazzani Visconti
IL CORRIDOIO
http://www.cnj.it/INIZIATIVE/jeantoschi.htm#fucina

anche nel settimo anniversario della
AGGRESSIONE DELLA NATO CONTRO LA REP. FED. DI JUGOSLAVIA
http://www.cnj.it/24MARZO99/index.htm

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Sulla democrazia

Link: http://politics.guardian.co.uk/foi/story/0,,1745684,00.html

LONDRA - Sono magri e dal volto emaciato e sembrano appena usciti da un campo di concentramento nazista. Ma le fotografie pubblicate oggi dal quotidiano The Guardian per la prima volta dopo 60 anni, non sono quelle di internati a Dachau, bensì di presunti comunisti che a partire dal 1947 I britannici torturarono in un centro di detenzione segreto nella Germania del dopoguerra.


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Nella convinzione che la guerra con l'Urss - che era stata alleata di Londra contro Hitler soltanto 18 mesi prima - fosse inevitabile, l'allora ministero della Guerra britannico ritenne giustificabile l'utilizzo di metodi 'sporchì per ottenere informazioni sull'arsenale militare e sui metodi d'intelligence dell'Unione Sovietica.

Secondo il giornale infatti, nel campo di prigionia vicino ad Hannover alcune di queste persone arrestate vennero picchiate a morte o lasciate morire di fame, mentre su altri venivano applicate macchine di tortura prese dai campi di concentramento tedeschi. Moltissime donne vennero imprigionate e torturate, insieme a vere spie sovietiche, ex nazisti ed ex SS. Non è chiaro quante persone furono soggette a tortura, nè per quanti anni il centro restò operativo.

"L'idea che la Gran Bretagna non impiegò la tortura durante la Seconda Guerra Mondiale e nel dopoguerra, perchè considerava tali metodi inefficaci, è un puro e semplice mito che è stato fatto circolare con successo per decine di anni. È ora che venga riconosciuto il fatto che queste torture hanno avuto luogo", ha dichiarato Sherman Carroll della Medical Foundation for the Care of Victims of Torture, secondo la quale le autorità britanniche dovrebbero scusarsi e ricompensare I sopravvissuti.

Una richiesta di scuse ufficiali è venuta anche dal portavoce del partito liberaldemocratico per la Difesa, Nick Harvey, il quale ha affermato: "È troppo tardi per trovare I responsabili, ma non è troppo tardi per il ministero della Difesa riconoscere quanto accaduto". Il ministero della Difesa ha tuttavia respinto le richieste, sostenendo che sta al ministero degli Esteri rispondere delle attività dei centri di detenzione al tempo gestiti dal ministero della Guerra.

Dai documenti declassificati ottenuti dal Guardian emerge che l'allora governo laburista fece grandi sforzi per tenere segrete le torture sui prigionieri, per nascondere - secondo le parole di un funzionario di allora - "il fatto che siamo sospettati di aver trattato I nostri prigionieri in maniera simile agli internati dei campi di concentramento tedeschi".

Ma 60 anni dopo, secondo quanto rivela il giornale, il velo di segretezza steso su questi fatti è ancora lo stesso. Il Guardian quattro mesi fa chiese ed ottenne dal Foreign Office I documenti sulle torture al campo di prigionia. Ma le foto - scattate nel 1947 da un ufficiale di marina che voleva denunciare le torture - erano state rimosse su richiesta del ministero della Difesa e sono state consegnate al giornale sono dopo un appello ufficiale.

Il ministero della Difesa intanto, continua il Guardian, continua a non rilasciare I documenti relativi ad un altro centro di detenzione gestito dal ministero della Guerra nel centro di Londra tra il 1945 ed il 1948, dove ora si crede molti uomini furono soggetti a tortura. Il ministero sostiene di non poter rendere pubblici I documenti perché contaminati con amianto.

31 marzo 2006

Guerra esterna/guerra interna

Como, una pattuglia del nucleo di sicurezza ha fermato in via Briantea l’auto di cinque giovani sospettati di essere dei writers.
Gli agenti,scesi con le pistole già cariche, hanno effettuato una perquisizione durante la quale uno di loro ha sparato alla nuca di RUMESH, reo di essersi voltato.
Ed ora è in fin di vita.

29 marzo 2006

Inoltra: [JUGOINFO] M. Gombac: bambini sloveni nei campi di concentramento italiani

Fonte: http://it.groups.yahoo.com/group/tera_de_confin/message/11674

www.unive.it/media/allegato/dep/Ricerche/
4-I_bambini_sloveni_nei_campi_di_concentramento_italiani.rtf -


I bambini sloveni nei campi di concentramento italiani (1942-1943)

di Metka Gombac

Il tema dei bambini vittime della guerra non è stato ancora esplorato
a fondo. Benché nella retorica quotidiana i giovani assumano il valore
di simbolo del futuro, ben poco in verità, si è indagato sulla loro
condizione e sulla loro sorte in una guerra senza quartiere, come la
seconda guerra mondiale. Il diario di Anna Frank ha forse consentito a
molti di intuire di che cosa nazismo e fascismo sono stati capaci
contro i bambini, ma, come si può evincere dalla storia qui
raccontata, quello di Anna fu soltanto un tassello di una tragedia
molto più vasta.

La seconda guerra mondiale portò violenze e traumi ai bambini nel
nordest d' Italia (dove furono eretti campi di concentramento) e
nelle regioni contigue della Slovenia e della Croazia (serbatoio di
rastrellati ed internati). Da quando la Jugoslavia entrò nell´orbita
dell'imperialismo italiano, tedesco ed ungherese, per i suoi abitanti
non ci fu più pace. Dopo l'aggressione alla Slovenia (avvenuta il 6
aprile 1941) le forze dell'Asse decisero di dividersi il territorio
conteso: il Reich tedesco optò per le regioni del nord (lo Stayer e la
Carniola superiore), l'Ungheria per le regioni a ridosso del fiume
Mura e l'Italia per le regioni che dalla Sava scendevano verso sud,
verso la provincia di Fiume e verso la Croazia. Le forze d'occupazione
italiane tentarono di assimilare su un territorio di 4.450 chilometri
quadrati ben 336.279 sloveni che, con il decreto reale 291 del 3
maggio 1941, istitutivo della Provincia di Lubiana (fuori da ogni
legge di guerra), divennero sudditi del Regno d'Italia. Mussolini
nominò a capo di questa Provincia due funzionari, Emilio Grazioli come
Alto Commissario per le questioni civili e il generale Mario Robotti,
comandante dell XI armata, per le questioni militari. Anche se i
rapporti ufficiali delle autorità che da Lubiana andavano a Roma
notificavano un' occupazione relativamente tranquilla, l'OF, il fronte
di liberazione sloveno (una coalizione formata da comunisti, da
cristiano sociali e da frange dissidenti liberali), che dal 27 aprile
1941 dirigeva da Lubiana tutto il movimento di liberazione, accertava
che già nei primi giorni d'occupazione ben 400 intellettuali sloveni e
fuoriusciti dalla Venezia Giulia erano stati rinchiusi senza alcun
fondato motivo. Era vero dunque, come riferivano i rapporti dell'OVRA,
che sotto una pace apparente covava il malcontento e che gli sloveni
mal sopportavano l'occupazione italiana. Anche a parere di Natlacen,
Pucelj e Gosar, i dirigenti politici dei partiti sloveni che avevano
scelto di collaborare, l'occupazione da parte delle forze tedesche
sarebbe riuscita più gradita dell'occupazione italiana. Stereotipi di
superiorità verso i latini, stereotipi diffusi in Austria già dal
tempo di Radetzky, suggerivano ai lubianesi una preferenza esplicita
per il Reich. Il malcontento cresceva anche a cusa dei frequenti posti
di blocco, dell'introduzione della lingua italiana
nell'amministrazione e nella scuola pubblica e dell'impatto negativo
dell'esercito con la realtà locale. Inoltre le manifestazioni di
esplicito razzismo non potevano non incrinare le relazioni tra le
forze d'occupazione e la realtà locale. Dichiarazioni come quella del
prefetto Temistocle Testa che gli sloveni erano «un popolo che ogni
giorno di più sta dimostrando di essere quello che sempre è stato,
cioè una razza inferiore che deve essere trattata come tale e non da
pari a pari», sono un significativo esempio[1].

Dopo l'attacco all'Unione sovietica, l'OF, il movimento di liberazione
sloveno, proclamò la guerra armata contro tutti gli invasori,
organizzando a Lubiana, ma anche in altri luoghi della Slovenia, una
rete di strutture illegali tra le quali la Difesa popolare, il
Servizio di informazioni, il Servizio per il finanziamento della
lotta, il Centro di raccolta viveri e armi e il Soccorso nazionale
sloveno (sulla falsariga del Soccorso rosso). Lo stesso schema venne
ripetuto nelle città di Vrhnika, Logatec, Novo Mesto, Kocevje,
Crnomelj e altre ancora, dove esistevano già alcuni gruppi di
partigiani armati pronti ad agire. Per mobilitare la popolazione si
istituirono sistemi di comunicazione illegali (radio e quotidiani) che
dovevano creare un' atmosfera utile al boicottaggio generale di tutte
le forze d'occupazione[2].

Uno dei primi ordini per colpire le comunicazioni ferroviarie e
stradali fu dato il 19 ottobre 1941. I gruppi armati partigiani
attaccarono con successo nelle zone boschive vicino a Vrhnika il ponte
di Verd e per qualche tempo tutti i collegamenti ferroviari e stradali
da Lubiana all'Italia furono interrotti. Questa azione soprese i
comandi dell'esercito d'occupazione che reagì con una controffensiva
organizzata dal generale Robotti il quale si avvalse della sua
competenza nella lotta antipartigiana. Ma questo continuo passare al
settaccio regioni intere creò tra la popolazione residente un grande
disagio e un grande malcontento, da cui trasse vantaggio la resistenza
slovena che andò ingrossando le file del proprio movimento.

Anche se i reparti armati partigiani dovettero temporaneamente
ritirarsi in zone più sicure (un triangolo tra Lubiana il confine con
la Croazia e la Provincia di Fiume), un mese più tardi il comando
italiano constatò che le azioni partigiane si stavano ripetendo e che
molte postazioni periferiche non potevano più essere mantenute. Gli
attacchi alla cittadina di Loz (19 ottobre 1941), al ponte di Preserje
(4 dicembre 1942) e nuovamente al viadotto di Verd (2 febbraio 1942),
sulla linea ferroviaria Lubiana - Trieste, crearono difficoltà
insormontabili ai vertici dell' esercito. Fu allora che il generale
Mario Robotti pensò dapprima di regolare i conti con il suo
concorrente per gli affari civili Grazioli e poi di mettere a ferro e
a fuoco tutta la regione a sud della capitale slovena. Nel gennaio del
1942 egli sottolineò che tutta la provincia di Lubiana, e in
particolare la sua capitale, andavano considerate zona di operazioni.
Consapevole del fatto che la direzione della resistenza slovena aveva
sede a Lubiana, Robotti decise di porre la citta' sotto controllo
cingendola con cerchi concentrici di filo spinato intervallati da
posti di blocco superabili soltanto con lasciapassare italiani. Sin
da 23 febbraio 1942 la divisione di fanteria «Granatieri di Sardegna»,
coadiuvata dai carabinieri, dalla polizia e dalla guardia alla
frontiera, dette il via alla cosidedtta azione di disarmo della
popolazione cittadina, ossia ad accurate perquisizioni delle persone e
delle loro abitazioni. Ogni giorno fu sottoposto a tale provvedimento
uno dei quattordici settori della città e tutti gli uomini tra i venti
e i trent' anni di età vennero trasferiti nella caserma Vittorio
Emanuele III di Tabor per essere identificati da delatori sloveni che
vestivano uniformi italiane. Questo grande rastrellamento si protrasse
a Lubiana per ben 19 giorni, fino al 14 marzo 1942, e i dati riportati
nei rapporti parlano della cattura o dell'arresto di ben 20.037
persone. Anche se questa imponente serie di rastrellamenti urbani non
riuscì a intaccare la struttura dirigente della resistenza slovena,
molti resistenti dovettero subire un destino segnato da baracche e da
filo spinato. Sui treni che partivano verso i campi di concentramento
di Gonars, Visco e Renicci presero posto moltissimi attivisti e
attiviste del fronte di liberazione, ma anche tanti e tante
intellettuali ed ex ufficiali dell' esercito jugoslavo. Più tardi
l'azione repressiva si intensificò con l'attività del Tribunale
militare di guerra (TMG) che iniziò la sua attività nella primavera
del 1942 con la condanna a morte di 28 partecipanti alla distruzione
del viadotto di Preserje. Il TMG continuò ad operare fino all'
armistizio dell' 8 settembre 1943[3].

Dopo l'ordine di Mussolini a Gorizia del 31 luglio 1942, secondo cui
bisognava «ammazzare tutti i maschi slavi», il II Corpo d' Armata
pubblicò, in forma riservata, un documento volto stroncare il
movimento di resistenza sloveno, e cioè la Circolare 3 C, contenente
le direttive per la repressione sia del movimento armato che dei
civili in Slovenia. La circolare fu firmata dal generale Mario Roatta,
militare di professione, nato a Modena nel 1887 e comandante dal
gennaio del 1942 della II armata, quella che controllava la Dalmazia,
la costa croata e le zone montane della Provincia di Lubiana. Nel 1944
Roatta fu condannato dagli alleati all' ergastolo in contumacia[4].

Fu in base ai suoi ordini che l'esercito italiano effettuò una serie
di massicci rastrellamenti contro la popolazione civile, che si
protrassero dall'estate 1942 fino all'autunno dello stesso anno. Ben
70.000 soldati italiani dislocati sul fronte balcanico passarono al
settaccio un terreno di 3.000 chilometri quadrati a sud di Lubiana,
dove vennero rasi al suolo centinaia di paesi, effettuati massacri
indiscriminati di ostaggi e da dove vennero mandati in internamento
nei cosiddetti «campi del Duce» circa 30.000 persone, in gran parte
donne, vecchi e bambini. Due di questi campi di concentramento per
civili furono istituiti a ridosso del fronte SLO-DA verso i
partigiani, uno sull´isola di Rab - Arbe e l´altro sull´isola di Olib,
altri ancora furono eretti a ridosso del vecchio confine
italo-austriaco in Friuli e nel Veneto nelle località tristemente note
di Gonars, di Visco, di Monigo presso Treviso e di Renicci presso
Padova[5].

A soffrire di più in questi campi furono senz´altro i bambini. Sembra
che fino ad ora, né la storiografia, né le testimonianze orali siano
riuscite a tracciare una quadro esauriente del vissuto dei bambini,
l´anello piu' debole nella catena di coloro che nel corso del
conflitto subirono violenza. Il bambino rimane ancora sempre
fatalmente legato al mondo degli adulti, soprattutto nelle condizioni
estreme portate dalla Guerra e dall´internamento. In riferimento ai
bambini che hanno subito la violenza di un campo di concentramento, si
parla generalmente di «infanzia violata», di una sindrome, dunque,
indelebilmente impressa nella loro memoria. Come ebbe a dire nel corso
di un´intervista Herman Janez, uno dei bambini sopravissuti sia al
campo di Rab che a quello di Gonars: «dal 1952 sono ritornato a Rab
per ben 52 volte per ricordare i miei parenti e tutti quelli che sono
morti lì, ma anche per ritrovare un pezzo di me stesso. La mia
infanzia è rimasta per sempre lì»[6].

Nell´aggressione italiana alla Slovenia, anche i bambini, al pari
delle generazioni adulte, pagarono il loro prezzo in termini di
violenza e terrore. Conobbero fatalmente anche i rastrellamenti, gli
incendi, la morte, lo stigma razziale e nazionale, la
snazionalizzazione forzata e la deportazione nei campi di
concentramento dove andarono incontro all´eliminazione fisica nella
forma più brutale. Quando la guerra nella provincia di Lubiana divenne
totale, gli adolescenti, assieme ai loro genitori, si ritrovarono in
una condizione di disorientamento e smarrirono la propria gioventù.
Qualcuno li aveva spinti in un mondo che non era il loro mondo e
questo qualcuno aveva progettato per loro la deportazione nei campi e
l´incontro quotidiano con la morte.

Indagando le motivazioni di questo terrore generalizzato, ho
incontrato presso l´Archivio di Stato sloveno una serie di scritti e
di disegni infantili, che parlano proprio delle condizioni di vita dei
bambini sopravissuti ai campi del Duce. L'impulso a redigere questi
scritti fu dato a questi giovani diseredati dalle autorità scolastiche
partigiane nei territori liberi già negli anni 1944-45, per
salvaguardare in questo modo la memoria e la personalità di queste
piccole vittime della guerra. In una dichiarazione scritta da Drago
Kalicic di dieci anni si può leggere:

Io sono senza padre. È stato fucilato dagli Italiani. Un giorno sono
entrati nel mio paese. Ci hanno fatto uscire dalla casa. Tutti
piangevamo disperati ma mia mamma era quella che forse piangeva di
più. Hanno preso e rinchiuso mio padre. Con lui hanno portato via
tanti altri uomini. Poi ci hanno fatti andare in fila verso il paese
di Zamost dove hanno fucilato dodici uomini. Tra questi c´era anche
mio padre. Quando lo abbiamo saputo abbiamo pianto tanto. Poi hanno
bruciato la nostra casa e ci hanno portati verso l´internamento[7].

I deportati, e soprattutto i bambini, conobbero una nuova drammatica
realtà, quella di dover sopravvivere nei campi di concentramento,
praticamente senza cibo, con poca, pochissima acqua e in condizioni
igeniche e sanitarie inumane. A causa di queste condizioni morirono
nel breve, ma anche nel lungo periodo, numerosissimi adulti persero la
vita e anche tanti bambini. La prima vittima del campo di Rab - Arbe
fu proprio un bambino, Malnar Vilijem, nato a Zurge presso Cabar il 22
maggio 1942. Così scrisse nella cronica del monastero francescano di
Sant' Eufemia di Rab, il frate Odoriko Badurina: «Ieri, 5 agosto 1942,
abbiamo sepellito nel locale cimitero un piccolo angelo di due mesi,
Vilijem Malnar, la prima vittima tra questi internati»[8].

La condizione degli internati variava da campo a campo. Se per il
campo di concentramento per civili di Gonars in Friuli, gestito dal
Ministero degli Interni, si può affermare che rispondesse a requisiti
minimi di vivibilità (pacchi, posta, biancheria personale ecc.), la
situazione nei campi di internamento parallelo, come li definì Carlo
Spartaco Capogreco, era completamente diversa. Qui, gli internati,
donne, vecchi e bambini, erano costretti ad una disperata lotta per la
sopravvivenza, nascosti al mondo ed anche agli occhi indiscreti della
Croce Rossa internazionale. L'esercito italiano, che gestiva questi
campi (Rab, Olib), aveva già alle spalle una certa esperienza nella
realizzazione di campi di concentramento; basti pensare a quelli
eretti in Libia dal generale Graziani in cui trovarono la morte
migliaia di internati. Il campo di concentramento di Rab - Arbe
rispondeva proprio al modello dei campi creati da Graziani in Africa e
non fu per caso che a Rab - Arbe e negli altri campi gestiti
dall´esercito morirono di fame, di sete, di freddo e di stenti
migliaia di civili[9].

Il sistema concentrazionario realizzato dall´esercito italiano nei
territori occupati della Slovenia, per il numero dei deportati e delle
vittime e per i metodi di gestione realizzati a Rab - Arbe, ricordava
più i peggiori campi di concentramento africani, che non le forme di
internamento degli oppositori del regime. La stessa presenza di
vecchi, donne e bambini nei campi è illuminante a proposito. Tutti i
campi realizzati dall´esercito nel corso della seconda guerra mondiale
furono definiti ufficialmente «campi di concentramento». Carlo
Spartaco Capogreco ha definito giustamente illegale o meglio «fuori
legge» l´internamento dei civili sloveni praticato dal regime fascista
dopo l´invasione della Jugoslavia. Invasione, che peraltro avvenne al
di fuori di ogni legge di guerra con il bombardamento improvviso di
Belgrado e, in seguito, con l´annessione della Slovenia all´Italia già
nel corso della guerra. Occorre anche distinguere, e in questo ci
aiuta molto l'analisi di Tone Ferenc, tra la violenza espressa in
queste zone dall'esercito italiano nel 1941, violenza mirata ad
obiettivi politici e militari ben definiti, e quanto avvenne a partire
dal 1942, quando fu decisa e attuata una vera e propria strategia del
terrore verso la popolazione civile. Le nuove direttive proposte da
Roatta e dagli alti comandi, in un quadro ideologico marcatamente
razzista, prevedevano l´utilizzo contro i civili degli stessi metodi
applicati dai nazisti sul fronte orientale: dall´incendio dei
villaggi, alla fucilazione degli ostaggi, alla deportazione in massa
in campi di concentramento per creare il vuoto attorno alle forze
partigiane. In questo quadro non dovrebbe sorprendere che il tasso di
mortalità registrato nel campo di concentramento di Rab - Arbe, a
causa della fame, del freddo e delle spaventose condizioni igenico -
sanitarie, sia stato per lunghi periodi superiore a quello dei
peggiori campi di concentramneto nazisti, se si escludono quelli di
sterminio. La differenza consiste solo nell´assenza di camere a gas e
di crematori, sostituiti però da condizioni di vita insopportabili, di
cui, ovviamente, furono i bambini le vittime principali. Si tratta in
ogni caso di morti che non possono essere attribuite a fattori casuali
e non previsti, come potrebbero esserlo le espidemie in conseguenza
del sovraffollamento. L´alto numero dei decessi è il risultato di
decisioni prese a tavolino, nel momento in cui si programmava, ad
esempio, un vitto del tutto insufficiente. Ciò avveniva, sia per non
sottrarre risorse all´esercito, sia per rendere i prigionieri più
deboli e quindi più controllabili con il minor impiego di truppe. Non
si condanna a morte, quindi, ma si lascia morire, e questo non solo
nell´inferno di Rab - Arbe. A morire per primi furono i bambini, sia
quelli giunti con le tradotte, che quelli nati nei campi.
L´internamento e la morte dei neonati venivano considerati dai vertici
dell´esercito un collateral damage, da non prendersi seriamente. Le
rubriche ufficiali del campo di Rab - Arbe distinguono i decessi
unicamente secondo il genere. Se non fosse per i documenti d´archivio
e per le testimonianze dei soppravvissutti, non saremmo mai riusciti a
sapere che le vittime più numerose del campo di Rab - Arbe furono
proprio i bambini. Questi arrivavano al campo con i genitori o, se
orfani, con parenti o conoscenti. Così Herman Janez, che nel 1942
aveva 7 anni, ricorda l´arrivo a Rab - Arbe:

Dalle nostre montagne ci hanno trasportato fino a Bakar, un'
insenatura a sud di Fiume, dove abbiamo dormito all' addiaccio. Mio
nonno stette tutta la notte a ripetere che ci avrebbero buttati in
mare. Il giorno seguente partimmo senza sapere dove ci portassero.
Giungemmo a Rab, dove ci divisero per sesso e per età. Praticamente ci
avevano diviso definitivamente. Io che ero senza madre dovetti
lasciare mio padre e mio nonno per andare nella parte del campo
riservato alle donne e ai bambini. La paura di restare solo mi fece
urlare e piansi così fino al giorno successivo, quando mi trasferirono
in un campo intermedio. Mio padre non l´ ho più avuto vicino e
soltanto a Gonars mi riferirono, alcuni mesi più tardi, che era morto.
Dormivamo in tende vecchie e logore che facevano passare l´acqua e
dove si entrava a carponi. La latrina era molto lontana e di notte
facevamo fatica a raggiungerla. Nel caldo torrido dell´estate non si
poteva trovare alcuna ombra. Pativamo la sete, la fame e l´attacco di
una moltitudine indicibile di pidocchi. Il ruscello che scendeva dal
campo maschile e attraversava il nostro campo era pieno di pidocchi e
non ci si poteva lavare. Quando arrivava la cisterna dell´acqua le
guardie si scostavano e noi ci buttavamo come pazzi su quel fievole
rivolo d´ acqua. Quando pioveva il campo diventava una distesa di
fango impercorribile. La sporcizia ci faceva impazzire[10].

Quando nella notte dal 28 al 29 settembre 1942 un nubifragio travolse
il campo femminile e l'acqua di mare salì fino alle tende, molti
bambini morirono scomparendo nei flutti. Le autorità del campo non
fecero niente per salvare gli internati, ma dopo un po' incominciarono
i trasferimenti nel campo superiore chiamato Bonifica e le tende
vennero sostituite da baracche. Poiché la mortalità aumentava di
giorno in giorno, le autorità militari, verso la fine del 1942,
decisero di trasferire i bambini e le donne più provati in altri campi
di concentramento, come quelli di Gonars e di Visco[11].

Una sopravissuta, Marija Poje, che oggi ha 84 anni e vive a Podpreska
vicino a Draga, nelle vicinanze di Loski potok, e che trascorse 5 mesi
infernali al campo di Rab - Arbe con il suo bambino, ricorda così il
trasferimento a Gonars:

In una mattina fredda e piovosa di dicembre ci hanno fatti salire su
una nave stracolma che avrebbe dovuto trasportarci non si sapeva dove.
Quel giorno fuori dal porto si vedevano le onde alte e burrascose. La
stiva era stipata da tantissima gente, però qualcuno ebbe pena di me e
del mio bambino e ci fece sedere nella stiva riparati dalla pioggia e
dall'acqua di mare. Giungemmo a Fiume la mattina seguente,
infreddoliti e affamati. Ci diedero una tazza di caffè e un pezzo di
pane, prima di farci salire sul treno che ci trasportò fino a
Palmanova. Poi con dei camion venimmo trasportati al campo di
concentramento di Gonars dove ci misero nelle baracche. Per noi era
una meraviglia sentire la pioggia e rimanere asciutti, perché a
Rab, se pioveva, anche stando nelle tende eravamo tutti bagnati. Ci
portarono poi in infermeria per disinfestare i nostri vestiti dai
pidocchi e farci fare la doccia. Chiesi a qualcuno che stava lì dove
dovevo posare il mio bambino prima di entrare nel reparto docce e mi
dissero di posarlo su un mucchio di stracci per quel po' di tempo. Ma
appena entrata nello stanzone qualcosa mi fece uscire per vedere se il
mio bambino fosse sempre lì. Mi si strinse il cuore, quando vidi che
non c' era più. L'inserviente alla fornace a vapore dove passavano i
vestiti per disinfestarli dai pidocchi aveva preso il mucchio dove
avevo posato il bambino gettandolo nella stufa. Per fortuna non
l'aveva ancora attivata e un gemito si sentì proprio in quella
direzione. Corsi verso quella stufa a vapore come una matta
riprendendomi il mio bambino. Mia suocera mi aiutò molto, asciugando i
pannolini bagnati sulla schiena. Ma alla fine questo bambino non
sopravvisse e non sopravvisse neppure mia suocera e neanche il bambino
che dovevo ancora partorire[12].

Nel campo di Gonars, dove dal 1942 erano passati molti internati della
provincia di Lubiana, l´arrivo di centinaia di questi poveretti
provenienti dal campo di Rab - Arbe (i miserabili di Rab) provocò un
profondo sconvolgimento tra gli internati del campo. La vista di
quegli scheletri ambulanti provocò in molti un intenso sentimento di
compassione e diede impulso a gesti di solidarietà. Molti cercavano
di aiutare i superstiti di Rab dando loro il cibo che arrivava
dall´esterno con i pacchi, o capi di vestiario vecchi, oppure
semplicemente fornendo loro notizie fresche. I volti di quei bambini
ammutoliti, che restavano fermi negli angoli per giorni interi senza
muoversi, restarono impressi non solo nei disegni del pittore Stane
Kumar, ma anche nella memoria di tanti internati, bambini compresi.
Ricorda nel suo scritto Milan Cimpric di 9 anni:

A Gonars si pativa una tale fame che faccio meglio a non pensarci.
Mangiavamo anche le bucce che i cuochi buttavano nella fossa delle
immondizie. Una volta siamo caduti tutti quanti in questa fossa e io
ero sotto. Gli altri sono cascati sopra di me. Avevo male alle ossa.
Ho trovato poche bucce. E' stato così triste a Gonars[13].

Queste memorie infantili scritte in pieno tempo di guerra sono
toccanti anche per il loro linguaggio semplice, senza abbellimenti, ma
con l´aggiunta di disegni e schizzi che vorrebbero rappresentare quei
piccoli episodi di felicità o di paura che si erano fissati nella
memoria dei bambini durante la permanenza nel campo di Gonars.

La vita degli adulti nei campi era assorbita dai tentativi di
arrangiarsi e sopravvivere. Ma era difficile non vedere che la
sofferenza dei bambini aumentava di giorno in giorno. I bambini più
provati erano soprattutto quelli senza genitori, benché si trovasse
sempre qualcuno che prendeva il loro posto. Stane Kumar, noto pittore
sloveno anch´egli internato, aveva pensato di alleviare il proprio
dolore facendo degli schizzi ai bambini affamati sia nel campo di Rab
- Arbe che in quello di Gonars. Nelle sue memorie parla della
terribile fame che rendeva i bambini apatici e anemici:

Ho visto la fame della prima guerra mondiale, ma quella non era fame
vera. Quella veramente reale era la fame nei campi dove ad ogni passo
ritrovavi due paia di occhi che ti chiedevano di sfamarli, di dar loro
qualcosa da mangiare. I bambini diventavano ottusi e stavano seduti
negli angoli delle baracche senza parlare. Morivano in tanti di fame e
tu non potevi far niente[14].

Che i bambini fossero l´anello più debole della catena dei diseredati
finiti nei campi di concentramento italiani, lo conferma l´«amnesia»
della direzione dei campi stessi, che dimenticò di annotare, tra i
25.000 internati sloveni, il numero dei bambini che fecero il loro
ingresso nel campo, il numero di quelli che vi nacquero e che vi
persero la vita. Alcuni dati sporadici della fine di agosto del 1942
parlano, per il campo di Arbe, di 1000 bambini sotto i 16 anni, mentre
per il campo di Monigo presso Treviso i dati a nostra disposizione per
il 1943 parlano di 979 bambini su 3.188 internati. Anche se sulle
deportazioni e sull´occupazione italiana della provincia di Lubiana,
esiste oggi in Slovenia una vasta documentazione, molti dati sui campi
sono tuttora irreperibili, sia per la fretta con la quale le forze
d´occupazione lasciarono la Slovenia, sia perché le autorità, nella
loro ignominia, non badavano troppo alle cifre dei vivi o dei morti,
degli arrivi e delle partenze, delle nascite e dei decessi nei campi.
Per una riflessione su queste reclusioni forzate ci restano le
testimonianze dei sopravvissuti e i componimenti dei bambini ai corsi
scolastici organizzati nei territori liberi partigiani:

Erano corsi - ricorda Herman Janez - che venivano organizzati proprio
in questa stagione 60 anni fa. E' giugno. Le giornate sono lunghe e
calde. Siamo gli alunni delle scuole partigiane di Podpreska, di
Draga, di Trava, di Osilnica sul fiume Kolpa. Le lezioni vengono
tenute quando non ci sono rastrellamenti in corso. Soprattutto a
Podpreska e a Draga. Maestre pronte al sacrificio ma umili e gentili
vedono davanti a sè nelle classi improvvisate i volti di questi alunni
già provati seriamente dalla tragedia dei campi, segnati per tutta la
vita. Noi siamo i bambini della guerra. Le lezioni ormai si svolgono
tutto l'anno dal gennaio 1944 in poi. Si svolgono nelle case
risparmiate dalla guerra, nelle camere dei contadini locali dove
troneggiano stufe di terracotta enormi che mai si spengono. Qui siamo
a 1000 metri d'altezza e le patate appena crescono. Gli occhi dei
bambini sono grandi. Sono vestiti malamente e in generale sono tutti
scalzi. Qualcuno li accompgna a scuola e qualcuno viene a riprenderli.
Sono tanti, ma la maestra Nada Vrecek del paese di Trava, numero
civico 96, è la maestra con il maggior numero di alunni. Tra loro ben
74 sono senza padre. O è morto a Rab o è stato fucilato come ostaggio.
Soltanto uno è stato fucilato dai partigiani. La maestra Nada è in
continuo movimento, ora per ora, giorno per giorno, perchè le lezioni
si tengono in case diverse. Gli alunni sono stati assenti da scuola
per due anni e allora si capisce che c' è ancora tanto da fare. Una
volta forse scoppierà la pace e allora voglio, diceva Nada, che siate
alla pari con queli che non hanno perso 2 anni di scuola. Queste
scuole improvvisate non hanno né lavagne né banchi e i bambini sono
senza libri e senza quaderni. Rifanno la materia a memoria. Se qualche
gruppo partigiano attraversa il paese, si rimedia una o due matite,
che vengono attentamente tagliate in 3 pezzi, per essere poi divisi
tra gli alunni. Questi scolari, questi «miei poveri bambini», diceva
sempre Nada, un giorno diverranno adulti. Si dovrano promuovere in una
società che non ricorderà i patimenti patiti. Un giorno sarete tutti
uguali e Dio vi benedica per questo, ma attenzione, nessuno vi darà
dei privilegi per quello che avete patito. Quelli che sopravviveranno
dovranno lottare per il pane quotidiano. La maestra Nada Vrecek ha
insegnato per 54 anni. Oggi è nel suo novantaseiesimo anno di età.
Ancora oggi è solita ripetere che «gli anni passati tra questi bambini
sono gli anni piu' sentiti della mia vita e non vorrei mai dimenticare
nessuno tra loro». Ma noi eravamo pieni di paura. Eravamo ancora
abbastanza magri e non potevamo stare mai fermi. C'era ancora la
guerra, molte case erano ancora allo sfascio, gli ex internati erano
ancora privi di tutto. Si temevano soprattutto i collaborazionisti,
che si facevano vedere soltanto quando non c´erano partigiani in
circolazione. Si sapeva che la loro comparsa era accompagnata dalla
morte. Si facevano chiamare «quelli della mano nera» ed erano
veramente pericolosi. Per non mettere in difficoltà la nostra maestra,
alla loro comparsa cantavamo canzoni di chiesa e al saluto
provocatorio di «morte al fascismo» rispondevamo «buon giorno
signori». Parlavamo molto tra noi. Soprattutto alla sera si parlava
dei patimenti subiti, dei nostri genitori scomparsi, della fame e
della sete. Noi bambini internati avevamo sempre molto da raccontare.
A volte queste storie venivano soffocate da un pianto sfrenato al
quale seguiva il pianto di tutti noi. Rivivevamo così la nostra
tristezza, la nostra paura e il ricordo dei nostri cari. Vivevamo
assieme la nostra grande miseria umana, che qualcuno pensò sarebbe
bene esternare e farci passare così il trauma subito[15].

Negli scritti e nei disegni dei bambini internati conservati presso
l´Archivio di Stato di Lubiana si può intravvedere questo trauma della
fame e dell´inedia a cui si univa l´inclemenza della natura. I maestri
che proponevano i temi e che poi di volta in volta annotavano i voti
sui fogli, erano essi stessi dei sopravvissuti ai campi e qualcuno di
loro aveva perduto in quell´inferno il proprio bambino o uno dei suoi
cari. Erano dunque le persone più adatte per accogliere il dolore dei
bambini passati nei campi e comprendere i loro traumi[16].

Essi sapevano che quelle tende, di volta in volta fradice e
surriscaldate, non sarebbero mai scomparse dalla memoria dei bambini e
che le esperienze narrate nello scritto di Ivan Stimec di 10 anni non
si sarebbero mai cancellate:

Siamo stati deportati a Rab. Abbiamo vissuto in tende vicine al mare.
Dormivamo sulla terra nuda. Una notte mentre dormivamo, il vento
incominciò a soffiare ed incominciò a piovere. L'alta marea era
cresciuta e l'acqua ci arrivò fino alle ginocchia. Abbiamo pianto e
chiamato aiuto. Volevamo scappare, ma le guardie non ci lasciarono
uscire dal recinto. Il mare continuò a crescere e molti bambini
morirono annegati, mentre i nostri vestiti furono trascinati via dall´
acqua. La mattina dopo la burrasca si calmò e uscì il sole asciugando
e scaldando i nostri corpi, scossi dal freddo e dalla paura[17].

La serie dagli scritti infantili continua con i ricordi delle delle
cose belle e calde legati al tempo antecedente la distruzione dei
paesi. I bambini rivedono le mucche lasciate sole a casa, o il viaggio
verso l'isola di Rab - Arbe, o le cose di casa, il fuoco nel cammino o
la casa stessa. Come scrisse Vera Cimpric di 9 anni:

Sono stata internata per 9 mesi. Pensavo spesso alla mia casa perduta.
Ma quello che mi faceva piu' male era il pensiero del nostro bestiame.
Quelle che preferivo erano le mucche, perchè ci davano tanto latte. Si
chiamavano Ruska e Breza. Quando dovevo pascolarle, pensavo che era
difficile pascolare sempre le mucche. Ma durante l´internamento dove
non avevamo né da mangiare né da lavorare, pensavo a quanto fosse
bello essere sazi e pascolare. Dio, fa´ che possiamo avere ancora del
bestiame[18].

In tutti questi scritti la morte è onnipresente: si ricorda un coro
che canta sulla fossa di una sorella morta o una scatola di cartone
contenente il corpo di un amico ridotto ad uno scheletro. Come scrisse
Mrle Slavka di 9 anni:

Tutti ci chiamano internati perché siamo stati internati. Siamo stati
a Treviso. Avevamo tanta fame. A Treviso e' morto mio fratello. Avevo
ancora un fratello. Quando è ritornato dall´internamento è morto
all´ospedale di Susak. Quando lo abbiamo saputo abbiamo pianto molto[19].

Accostando le storie dei bambini ai dati d'archivio si può intravedere
una realtà agghiacciante. Come riferiva il generale Giuseppe Gianni,
da luglio a novembre 1942, a Rab - Arbe morirono ben 104 bambini.
Davanti a questi fatti le autorità italiane d´occupazione presero due
decisioni: la prima ordinava l'evacuazione di donne e bambini da Rab -
Arbe verso il campo di Gonars, la seconda ordinava ad una squadra di
fotografi di documentare le condizioni di vita nel campo. Da Rab -
Arbe a Gonars furono trasferiti tra il 21 novembre e il 5 dicembre
1942 ben 1.163 donne, 1.367 bambini e 61 uomini adulti[20].

L' 8 settembre 1943 il regio esercito italiano si dissolse. Dalla
Slovenia e dalla Jugoslavia lunghe colonne di militari disarmati
presero la via dell'Italia e anche i campi di concentramento aprirono
le loro porte. Come ricorda Marica Malnar di 10 anni:

Siamo stati internati a Treviso, avevamo fame e in inverno pativamo il
freddo. Parlavamo sempre di come era bello a casa. Volevamo andare a
casa. Un giorno i soldati entrarono nella nostra camerata e ci dissero
che saremmo tornati a casa. Lo stesso giorno siamo partiti verso casa.
Questo è stato per noi un giorno felice[21].

Nelle colonne che partivano dai campi, i bambini orfani venivano
accompagnati da parenti o gente comune, che davano loro una mano, un
pezzo di pane o di rapa. Attraversando passo dopo passo il Friuli,
qualcuno rivolgeva loro la parola e offriva un piatto di polenta. Al
momento del ritorno a casa videro tanti edifici bruciati, le stalle
distrutte e i fienili sfondati. Gli ex internati, malridotti e
affamati, dovettero organizzarsi da soli. Un grande senso di
solidarietà permise a questa gente di sopravvivere, ma alla fine
dovettero rivolgersi ai comandi partigiani, che erano però impegnati a
fronteggiare una pesante offensiva tedesca. Soltanto più tardi i
reduci dei campi ebbero un aiuto concreto dalle organizzazioni civili
della resistenza che si erano organizzate nelle zone libere. Si
provvide prima di tutto ai bambini orfani e a quelli che erano rimasti
senza casa, senza parenti o senza altre possibilità. A molti di questi
bambini l'organizzazione delle donne antifasciste (AFZ) e
l'organizzazione della gioventù socialista permisero di raggiungere
regioni non devastate dalla guerra e in cui si era istituito un
servizio scolastico[22].

L'organizzazione del Fronte di Liberazione Sloveno aveva pensato di
organizzare il servizio scolastico già dal 17 maggio 1942 attraverso
l'emanazione di un decreto che prevedeva l'organizzazione della scuola
nei territori liberati. Accanto alla lotta armata il movimento di
liberazione cercava di organizzare anche la vita civile: scuole,
ospedali, un istituto di credito e uno giuridico. Nelle zone libere
della Kocevska, lontano dalle vie di comunicazione, si era pensato di
far funzionare uno Stato partigiano in alternativa a quello di
occupazione. La scuola partigiana si sviluppò in tre fasi. Nel 1942
l'organizzazione della vita scolastica fu un progetto limitato, nato
dall'iniziativa di alcuni maestri dei reparti partigiani che avevano
pensato di istituire dei corsi scolastici per bambini delle scuole
elementari locali. Più tardi, dopo la capitolazione dell'esercito
italiano e dopo la formazione di vasti territori liberi,
l'organizzazione scolastica partigiana divenne oggetto di una
normativa da parte del Fronte di Liberazione che a partire dall'
autunno del 1944 organizzò la scuola in settori distrettuali e
circoscrizionali. La popolazione locale collaborò al buon
funzionamento della scuola. Si pensò inoltre di istituire corsi
supplettivi per chi era privo di istruzione e di articolare meglio il
lavoro dei maestri che si svolgeva in condizioni tanto difficili. Per
dare un senso a tutti questi sforzi, si pensò anche di organizzare un
concorso in componimenti che avrebbero dovuto compattare il tessuto
sociale di quanti avevano provato tutte le paure e i traumi della
guerra. La sezione scolastiva dell' OF promulgò allora un bando nel
quale si invitavano gli alunni delle scuole partigiane a scrivere la
propria storia sui patimenti vissuti nei tre anni di guerra. I temi
del concorso dal titolo «I bambini ci parlano» e «I bambini nei campi
di concentramento» volevano far ripercorrere a questa generazione
perduta la via delle sofferenze patite per ricucire il trauma e
rielaborare l'esperienza[23].

È così che si sono conservati questi scritti e questi disegni. Sono
documenti che parlano delle violenze subite dal punto di vista dei
bambini coinvolti in questa tragedia. Anche se le disposizioni del
bando recitavano «che bisognava esimersi dal patetico», gli scritti e
i disegni conservano una non comune forza espressiva. La commissione
che valutò gli scritti premiò tutti gli autori in blocco senza
prendere in considerazione gli errori di ortografia o di sintassi.
Bogomir Gerlanc, che aveva raccolto gli scritti migliori, li definì
«dei piccoli monumenti dedicati ai patimenti e alle sofferenze
subiti»[24].

In questo senso vorrei riproporre alcune riflessioni del maestro
Bogomir Gerlanc, che tanto ha fatto per far uscire le piccole vittime
dal trauma dei campi e ad inserirle nella vita quotidiana:

- siano questi scritti un documento del loro passato e delle
sofferenze patite

- siano d'aiuto alla pedagogia ed alla sociologia nello scoprire
l'animo della gioventù in condizioni estreme di sopravvivenza

- siano un documento d'accusa della bestialità umana

- siano una pagina incancellabile della sofferenza nel tempo che corre
inesorabile[25].

Nel campo della salvaguardia degli adolescenti in tempo di guerra, la
resistenza slovena aveva dato prova di una grande capacità
organizzativa già dal 1941 in poi. Si era pensato già allora di
organizzare un sistema di copertura illegale per i membri più giovani
delle famiglie impegnate nella resistenza. I figli di coloro che si
erano dedicati completamente alla lotta di liberazione venivano
affidati a famiglie che si occuparono di loro per tutta la durata
della guerra. Chi finiva in carcere o in campo di concentramento, o
veniva incluso nelle formazioni armate partigiane poteva contare su un
vasto reticolo di famiglie che avevano il compito di badare ai loro
figli. Per questa generazione di 200 - 300 bambini si adoperò già
allora il nome di «ilegalcki», cioè di bambini nati e vissuti nell'
illegalità. Come supporto logistico venne affiancata a questa rete di
famiglie l'organizzazione del Soccorso nazionale sloveno, erede del
Soccorso rosso, organizzato dai comunisti tra le due guerre.
Soprattutto nelle grandi città il Soccorso nazionale sloveno formò nel
1942 delle sezioni che dovevano andare in aiuto a tutti i giovani in
pericolo, pensare a procurare loro documenti falsi, aiutarli in caso
di malattia, vestirli, sfamarli, nasconderli, ecc.. Dall'estate del
1942 fino alla fine della guerra, ad organizzare questa rete furono
Ana Ziherl e Ada Krivic. A guerra finita Ana Ziherl scrisse le memorie
dell'avventurosa vicenda della resistenza slovena e consegnò inoltre
all'Archivio di Stato tutta la documentazione del movimento. Per
organizzare questa attività la Ziherl si serviva di quattro aiutanti,
che coprivano uno dei quattro settori di questa organizzazione
illegale, il cosiddetto settore bambini. Il gruppo poteva usufrire di
una serie di magazzini illegali, dove venivano conservati i mezzi
necessari per far fronte a questo impegno. Il settore bambini
provvedeva anche ai bisogni quotidiani delle donne e dei loro figli
rinchiusi nelle carceri ed arrivò a dar vita a delle dimostrazioni per
proteggere le famiglie rinchiuse o destinate ai campi di
concentramento. La prima dimostrazione si svolse nella primavera del
1943 davanti alla sede dell'Alto Commissario Grazioli e la seconda
nell'estate dello stesso anno davanti alla sede arcivescovile. Dopo le
grandi retate del 1942, Lubiana restò praticamente senza uomini abili
per la lotta clandestina. Allora furono le donne a prendere il loro
posto ricoprendo tutti i ruoli di maggiore responsabilità nella
resistenza slovena[26].

Come si è detto, la recrudescenza della guerra fece sì che Lubiana
fosse circondata da un filo spinato lungo 34 chilometri con posti di
blocco, bunker e fortezze, con postazioni di mitragliatrici pesanti.
L'organizzazione del Soccorso nazionale, alla quale si rivolgeva un
numero sempre maggiore persone, decise che per superare questa crisi
si sarebbe dovuto aumentare il numero delle famiglie incaricate della
protezione e che alcuni dei bambini avrebbero dovuto prendere la via
dei territori liberati. Secondo le testimonianze e gli studi condotti
sulla base di documentazione archivistica si può dedurre che per
aiutare i bambini nell'illegalità fosse stata messa in piedi una rete
di 300 famiglie lubianesi che non fu mai scoperta né dalle forze
fasciste né dai nazisti né dai collaborazionisti. A formare questa
organizzazione erano persone di estrazione sociale diversa, persone
sole o famiglie intere, anziani, medici, contadini, artigiani nubili e
sposati. Dagli studi risulta che tra tutti questi bambini vissuti
nell' illegalità per più di quattro anni a morire sia stata soltanto
una bambina. Ma la morte di una persona non può rendere l'idea delle
conseguenze patite da tutti questi bambini sui quali hanno pesato le
assenze dei genitori, la paura delle retate diurne e notturne, il
vivere constantemente nell'illegalità per due, tre o quattro anni.
Questa generazione, provata dalla guerra forse in un modo diverso, ha
dovuto affrontare i propri traumi ripercorrendo nella memoria la
tragedia di una gioventù violata[27].

Una storia tipica di questo periodo è la storia di Tatjana Dovc. Sua
madre, che fu sindacalista e membro del partito comunista, partorì la
bambina nell'agosto del 1941 nel reparto di maternità dell'ospedale di
Lubiana. Con l'aiuto del Soccorso nazionale sloveno riuscì ad
eclissarsi, mentre la bambina fu «rubata» da una attivista e fatta
uscire dall'ospedale dentro una comune sporta per la spesa. La mamma,
Angela Ocepek Dovc, ricercata dalle forze dell'ordine, cambiò in
quattro mesi ben 15 nascondigli riuscendo a salvarsi e a salvare la
bambina. Più tardi si divisero e la bambina cambiò residenza ancora 20
volte[28].

Come appare chiaramente dal materiale consultato e presentato in
questo studio, sul tema dei bambini sloveni in tempo di guerra le
fonti d'archivio primarie e secondarie sono ricche e numerose. Questi
documenti si trovano soprattutto nella Sezione II dell'Archivio di
Stato della Republica di Slovenia. La Sezione II trae le sue origini
dall'archivio dell'Istituto per la storia del movimento operaio (oggi
Istituto di storia contemporanea) che venne fondato nel 1959 come
un'istituzione complessa, formata da un reparto di ricercatori e da un
reparto che copriva i fondi d'archivio riguardanti la resistenza
slovena. Questo archivio venne completato più tardi con fondi
originali provenienti del funzionamento in loco delle istituzioni
delle forze d'occupazione della Slovenia, sia di quelle italiane che
di quelle tedesche (440 m.c.) e dall'archivio delle forze
collaborazioniste. Esiste inoltre una sezione del primo dopoguerra
(1945-47), costituita soprattutto dalla documentazione inerente alle
questioni di definizione dei confini (la questione di Trieste) fino
alla conferenza della pace di Parigi e da una vasta documentazione
sull' Adriatisches Kuestenland. Ai fondi d´archivio si accompagna un
vasto repertorio di memorie e testimonianze, archivi personali di
politici in vista, una vasta collezione di carte geografiche e di
cartelli e bandi pubblici.

L'archivio legato alla resistenza slovena veniva a costituirsi man
mano che l'amministrazione partigiana cresceva e si sviluppava. Nelle
zone libere funzionò dall'inizio del 1944 in poi un Istituto di
ricerca, diretto da Fran Zwitter, che dispose che tutti gli organi di
ogni grado e di ogni livello conservassero e archiviassero la
documentazione pubblica, civile e militare, interna ed estera. Il
governo partigiano sloveno (SNOS) promulgò nel gennaio del 1945 una
legge di tutela per gli archivi, le biblioteche, i monumenti artistici
e naturali (Gazzetta ufficiale NOS). La Sezione II dell'Archivio di
Stato della Republica di Slovenia è il diretto continuatore di questo
lavoro e con i suoi 1.300 metri consecutivi di materiale archivistico
costituisce uno dei più importanti e ricchi archivi sulla resistenza
e sulle guerre di liberazione in Europa e nel mondo. Il materiale in
questione può essere molto interessante sia per i ricercatori di
lingua italiana che per quelli di lingua tedesca, perché conserva i
materiali originali di queste due amministrazioni sul territorio sloveno.


Note archivistiche utili ai ricercatori

La Sezione II dell'Archivio di Stato della Repubblica di Slovenia
propone agli interessati questo elenco di fondi e di collezioni (tutte
disponibili al sito metka.gombac@g...) che
raccolgono documenti sulla condizione dei bambini sloveni durante la
guerra:

1. AS 1769, Zbirka okupatorjevi zapori in taborisca, sk. 1 (Collezione
prigioni e campi di concentramneto delle forze d' occupazione,
scatola 1.)

2. AS 1872, Zbirka dopolnilnega gradiva o delavskem gibanju in NOB,
1918 - 1945. (Collezione del materiale integrativo sul movimento
operaio e la resistenza 1918 - 1945)

3. AS 1840, Zbirka gradiva o zrtvah italijanskih okpacijskih oblasti
(Collezione del materiale concernente le vittime dell' occupazione
italiana)

4. AS 1953 Zbirka Slovenke v narodnoosvobodilnem boju. (Collezione
donne slovene nella resistenza 1941 - 45)

5. AS 1775, Poveljstvo XI armadnega zbora. (Comando dell XI Corpo
d'Armata)

6. AS 1788, Visoki komisar za Ljubljansko pokrajino (Alto Commissario
per la Provincia di Lubiana)

7. AS 1796, Kraljeva kvestura Ljubljana 1941 - 43. (Regia Questura di
Lubiana).

8. AS 1781, Poveljstvo grupe kraljevih karabinjerjev Ljubljana.
(Comando del gruppo Carabinieri reali di Lubiana)

9. AS 1752, Slovenski rdeci kriz v Ljubljani. (Organizzazione della
croce rossa slovena di Lubiana)

10.AS 1822, Stab za repatrijacijo vojnih ujetnikov in intzernirancev
Ljubljana (Commando per il rimpatrio dei prigionieri e degli internati
Lubiana)

11. AS 1627, Pooblascenec drzavnega komisarja za utrjevanje nemstva
na spodnjem Stajerskem (Plenipotenziario del commissario statale per
il rafforzamento della lingua e cultura tedesca nello Stayer del sud)

12. AS 1800, Glavni odbor Antifasisticne fronte zena. (Comitato
direttivo dell' Associazione donne antifasciste slovene)

13. AS 1670, Izvrsni odbor OF. (Comitato direttivo del Fronte di
Liberazione)

14. AS1828, Komisija za ugotavljanje zlocinov okupatorjev in njihovih
pomagacev pri predsedstvu SNOS. (Commissione per l' accertamento e la
verifica dei delitti degli occupatori e dei collaborazionisti)

15. AS 1790, Okrajno glavarstvo Crnomelj. (Amministrazione
distrettuale di Crnomelj)

16. AS 1602, Dezelni svetnik okrozja Celje 1941-43. (Consigliere
delegato della circoscrizione di Celje 1941-43).

17. AS 1791, Vojasko vojno sodisce II armade, sekcija Ljubljana
1941-43. (Tribunale militare di guerra della II Armata, Sezione di
Lubiana)


_____

[1] Teodoro Sala, Fascisti e nazisti nell'Europa sudorientale. Il caso
croato (1941-43), in Enzo Collotti - Teodoro Sala, Le potenze
dell'asse e la Jugoslavia. Saggi e documenti 1941-1943, Milano,
Feltrinelli, 1974, p. 69.

[2] Tone Ferenc, "Gospod visoki komisar pravi...". Sosvet za
ljubljansko pokrajino. Ljubljana, 2001, p. 6 ss.

[3] Metod Mikuz, Pregled zgodovine NOB. 1. knjiga, pp. 215-230,
Ljubljana, 1960.

[4] Boris M. Gombac, Dario Mattiussi (a cura di), La deportazione dei
civili sloveni e croati nei campi di concentramneto italiani: 1942-43.
I campi del confine orientale, Gorizia, Centro Gasparini, 2004, pp.
115-123.

[5] Herman Janez, Koncentracijsko taborisce Kampor - Rab, Ljubljana,
1996, pp. 2-10.

[6] Boris M. Gombac, Intervista a Herman Janez, sopravissuto ai campi
di concentramento di Rab-Arbe e Gonars, in Boris M. Gombac - Dario
Mattiussi (a cura di), La deportazione dei civili sloveni e croati,
cit., pp. 41-48.

[7] AS 1769, Zbirka okupatorjevi zapori in taborisca, sk. 1.

[8] Bozidar Jezernik, Italijanska koncentracijska taborisca za
Slovence med drugo svetovno vojno. Ljubljana, 1997, pp. 288 - 289.

[9] Dario Mattiussi, Una tragedia dietro al cortile di casa. La
deportazione nei campi di concentramneto italiani del confine
orientale (1942-43), in Metka e Boris M. Gombac - Dario Mattiussi,
Quando morì mio padre. Disegni e testimonianze di bambini dai campi di
concentramento del confine orientale, Gorizia, Centro Gasparini, 2004,
p. 47.

[10] Boris M. Gombac, Intervista a Herman Janez, cit. , pp. 43-45.

[11] Tone Ferenc, Rab - Arbe - Arbissima, Ljubljana, 2000, pp. 20-21.

[12] Intervista a Marija Poje di Podpreska, Slovenia.

[13] AS 1769, Zbirka okupatorjevi zapori in taborisca, sk. 1.

[14] AS 1769, Zbirka okupatorjevi zapori in taborisca, sk. 1, Gerlanc
Bogomil, Nas otrok v internaciji.

[15] Herman Janez, Testimonianza pubblicata in «Delo», Sobotna
priloga, Ljubliana, 2.7.2005, p. 31.

[16] Kumar Stane, Risal sem otroke v koncentracijskem taboriscu,
Otrostvo v senci vojnih dni, Ljubljana, 1980, pp. 144-148.

[17] AS 1769, Zbirka okupatorjevi zapori in taborisca, sk. 1.

[18] AS 1769, Zbirka okupatorjevi zapori in taborisca, sk. 1.

[19] AS 1769, Zbirka okupatorjevi zapori in taborisca, sk. 1.

[20] Tone Ferenc, Rab-Arbe-Arbissima, cit., p. 30.

[21] AS 1769, Zbirka okupatorjevi zapori in taborisca, sk. 1.

[22] Tone Ferenc, Rab-Arbe-Arbissima, cit., pp. 33-34.

[23] Slavica Pavlic, Narodnoosvobodilna vojska in organizacija
solstva. Otrostvo v senci vojnih dni, Ljubljana, 1980, pp. 90-115;
Joze Princic, Odnos ljudske oblasti slovenskega naroda do otroka v
obdobju NOB (1944-1945), Otrostvo v senci vojnih dni, Ljubljana,1980.

[24] AS 1769, Zbirka okupatorjevi zapori in taborisca, sk. 1, Bogomil
Gerlanc, Nas otrok v internaciji, Ljubljana ,1980.

[25] AS 1769, Zbirka okupatorjevi zapori in taborisca, sk. 1.

[26] Ada Krivic, Skrb za ogrozene druzine otrok v Ljubljani, Otrostvo
v senci vojnih dni. Ljubljana, 1980, pp. 26-37.

[27] Ada Krivic, Skrb za ogrozene druzine otrok v Ljubljani. Otrostvo
v senci vojnih dni, Ljubljana, 1980, pp. 20-39; AS 1871, Zbirka
dopolnilnega gradiva o delavskem gibanju in o NOB, 1918-1945.

[28] AS 1871, Zbirka dopolnilnega gradiva delavskega gibanja in NOB
1918-1945, MO OF Ljubljana.









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IL 18 MARZO 2006 A ROMA
CONTRO LE GUERRE E CONTRO LE OCCUPAZIONI MILITARI

http://www.cnj.it/INIZIATIVE/fse180306.htm

ed anche per ricordare il settimo anniversario della
AGGRESSIONE DELLA NATO CONTRO LA REP. FED. DI JUGOSLAVIA

http://www.cnj.it/24MARZO99/index.htm

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