08 aprile 2006

Bella analisi sulle lotte francesi contro il CPE

Carissimi vi invio questo pezzo prodotto dai compagni del c.f.
A presto
Gigi


Sul movimento di lotta in Francia

1. Da circa un mese la Francia intera, dalla sempreviva Parigi alle sonnolenti province, è scossa da un moto di protesta che ha coinvolto centinaia di migliaia di studenti universitari e liceali e ha raccolto –il 28 marzo e prima- la solidarietà attiva di centinaia di migliaia di lavoratori. E’ un moto di protesta imponente, e finora in continua ascesa, che può trovarsi tra breve, però, dinanzi al suo momento della verità, se il governo de Villepin non ritirerà il CPE, la miccia che ha acceso la lotta. Solidali con esso senza se e senza ma, senza accettare cioè in alcun modo la distinzione tra I manifestanti buoni perché educati e legalitari e I casseurs, cioè I più marginali, cattivi da abbandonare alla propria sorte (bastonate e carcere in stile Sarkozy), proviamo qui a ragionare molto schematicamente sul suo significato, sulle sue radici e sulle sue prospettive, cioè sulle nostre stesse prospettive, poiché le “questioni” sollevate da questo moto di protesta sono di carattere generale.

2. Questo amplissimo movimento di lotta ha catalizzato e portato in piazza il malessere delle nuove generazioni francesi d.o.c. Poche settimane dopo l’esplosione nelle banlieues delle nuove generazioni francesi di secondo rango, tali solo “sui documenti” in quanto composte da figli di immigrati. Questo minuscolo dato di fatto ed il carattere eminentemente spontaneo di entrambi I movimenti fanno piazza pulita della predizione centrale di tutta la letteratura sociologica d’accatto secondo cui l’“era della flessibilità”, individualizzando I rapporti di lavoro, avrebbe fatto deperire per sempre la “vecchia” lotta di classe collettiva. Si può toccare con mano, al contrario, quanto fosse radicata nella reale dinamica delle trasformazioni sociali, e per nulla auto-consolatoria, la (nostra) previsione inversa: la generalizzazione della crescente precarietà del lavoro salariato, vera sostanza di classe della “flessibilità”, non potrà che rovesciarsi, prima o poi, nel suo contrario, nella generalizzazione della lotta contro la precarietà.

E lotta è. Nella forma ancora una volta, a smentita delle geremiadi foucaultiane, dell’azione diretta, dell’azione collettiva, della auto-attività e della auto-organizzazione di massa, dello “sciopero” prolungato (per quanto un tale termine possa addirsi alla protesta studentesca), dell’agitazione di piazza. Gli innumerevoli mugugni e timori individuali, privati, e perciò gravati da un senso di impotenza, contro l’incremento senza fine della precarietà e contro la “mancanza di futuro” si sono fusi e trasformati di colpo in una sola, comune reazione, in una sola efficace iniziativa comune che ha ridestato in una massa di giovani la coscienza di quanto è insopportabile il “destino” che li attende (e di cui hanno iniziato a fare esperienza) e, insieme, di quanta forza può esserci –e c’è!- nella lotta di massa realmente partecipata, di quanta e quale capacità d’azione sia contenuta e compressa nella prolungata passivizzazione della “gente comune”, ove scocchi la scintilla giusta al momento “opportuno”.

3. Tale è il significato (non contingente) della attuale protesta francese. Essa è interamente concentrata –sta in ciò la sua forza, e però anche la sua debolezza- sul rifiuto del CPE. Il CPE è il contratto approvato il 9 marzo dal parlamento francese (voilà un ennesimo saggio di cosa sono I parlamenti…) che attribuisce alle imprese di ogni grandezza, non solo a quelle minori che già lo hanno, il potere di licenziare liberamente nei primi due anni del contratto di lavoro I propri dipendenti giovani (fino a 26 anni o, secondo un’altra interpretazione, fino a 28). Non è la prima protesta del genere in Europa: la manifestazione CGIL del 28 marzo 2002 a Roma in difesa dell’art. 18 dello Statuto dei diritti dei lavoratori aveva questo medesimo contenuto. La differenza sta nel fatto che oggi l’epicentro della protesta, in Francia, non è nel proletariato industriale, bensì in un mondo giovanile studentesco trasversale a più classi e, se vogliamo, appartenente in maggioranza alle classi medie. E, forse, nella più acuta percezione che in gioco non è soltanto l’istituzionalizzazione della precarietà nei rapporti di lavoro, ma la precarietà dell’esistenza come destino di vita per un’intera generazione. Génération precarie, génération jetable…Finora il tentativo di de Villepin di dire alla gioventù più istruita e meno marginale: “attenti, non si tratta di voi, bensì dei figli dei proletari, a cui vogliamo dare col CPE una buona opportunità”, non è riuscito. Anche la parte meno deprivata della gioventù francese comincia a sentirsi tirata nel vortice della “parificazione” delle “opportunità” al ribasso.
E di questo effettivamente si tratta. Il turbo-capitalismo mondializzato sta polarizzando senza posa anche le società occidentali, erodendo reddito e status delle classi medie impiegatizie (e di frange non proprio insignificanti delle stesse classi medie accumulative) nella misura in cui non può più esentarle dall’applicazione serrata delle leggi della concorrenza da cui negli anni delle vacche grasse le aveva tenute al riparo. Questo processo si è verificato dapprima negli Stati Uniti, ed ora tocca all’Europa. Non si tratta, evidentemente, della scomparsa dei ceti medi, ma della proletarizzazione di una loro bella quota. E’ il prodotto (inatteso) anche di quella terza rivoluzione industriale imperniata sull’elettronica, che ha semplificato e deprezzato non poche mansioni lavorative a contenuto un tempo “intellettuale” e qualificato, consentendo tra l’altro un loro più agevole trasferimento nei paesi “di colore”. Sui giornali francesi si è letto di un sentimento da nobiltà declassata presente tra i giovani in piazza, e la corrispondente de “il manifesto” se ne è doluta un po’: le piazze piene, ha notato, sono tuttavia cupe, poco gioiose, a differenza che nel ’68…

4. Infatti: non c’è molto da ridere. Da anni, il materialissimo spettro della precarietà, prima di inquietare i sogni dei piccoli borghesi, ha riempito di incertezza e di pene la vita di milioni di proletari, giovani e meno giovani. La riproduzione allargata del capitale alla scala mondiale si va facendo sempre più stentata e gravida di contraddizioni; e nella sua manìa di abbattere i costi di produzione, sempre più gravida di costi per la natura e l’umanità lavoratrice. Non ultimo, tra tali costi, è la cronicizzazione di un tasso di disoccupazione o di occupazione precaria molto elevato. La produzione di una ingente massa di donne e di uomini in soprannumero, superflui, da gettare nella spazzatura ha investito per primi, nel modo più devastante, i paesi dei continenti di colore: tanto il loro mondo contadino flagellato dai debiti, dagli stenti della povertà estrema e dalle malattie, quanto le loro metropoli con le sterminate bidonville pullulanti di emigranti in cerca di sopravvivenza. Ma nella misura in cui l’unificazione del mercato mondiale, ed in esso del mercato del lavoro mondiale, è divenuta, pur con tutte le sue complicazioni gerarchiche, sempre più compiuta ed effettuale, la tendenza ad un livellamento verso il basso del tasso di sfruttamento differenziale del lavoro salariato ha colpito anche in Occidente provocando anche nel centro dell’Europa, una stabile (e cioè slegata dal ciclo economico) precarizzazione della forza-lavoro, in specie giovanile. Nel plebiscitario “no” francese alla costituzione europea vi era l’illusione di potersi tenere fuori dagli effetti della piena mondializzazione della concorrenza capitalistica in corso, di allontanare da sé l’amaro calice del “modello anglo-sassone”. Senonché passati pochi mesi, le implacabili ragioni del capitale internazionale sono tornate a presentarsi sotto forma di una nuova legge sul lavoro francesissima, per giunta peggiorativa della stessa normativa media europea. Un altro addio alla (presunta) “eccezione francese”, dopo quello strisciante alle 35 ore.
I dati di fatto potentemente evidenziati dal movimento di lotta sono a tal punto univoci che pure i massimi specialisti nel camuffamento degli antagonismi sociali fanno fatica a nascondersi dietro il dito. Uno di loro, il sociologo R. Castel, ha descritto nel modo seguente lo stato delle cose:
“Sul piano del mercato del lavoro la situazione è effettivamente grave [e non solo in Francia –n.]. Lo sviluppo del capitalismo attuale non è capace di assicurare la piena occupazione, crea ricchezze ma non la piena occupazione, a differenza di quello che ha fatto il capitalismo industriale del secondo dopoguerra. Allora era possibile arrivare a un compromesso, con la promozione sociale, il diritto del lavoro. Ho parlato nei miei lavori delle persone in soprannumero, degli inutili al mondo. Mi sembra che oggi sia purtroppo sempre più vero. Si diffonde la consapevolezza che c’è gente che non ha posto sul mercato del lavoro, è in soprannumero, ma al tempo stesso tutti devono essere al lavoro, sono esigenze contraddittorie. La destra dice: il solo modo di uscirne è ridefinire cosa è il lavoro, chiamare occupazione forme di lavoro che sono al di qua del lavoro. La sinistra non ha la risposta…” (intervista a il manifesto, 31 marzo).
Verissimo. C’è una contraddizione sempre più stridente tra l’assoluta necessità di trovare lavoro per vivere o sopravvivere, o anche soltanto per continuare a studiare, necessità esaltata dai tagli al welfare state, e la crescente difficoltà a trovare un lavoro salariato che “assicuri” un minimo di stabilità e una remunerazione che non sia al di sotto della media. Ma da cosa dipende tutto ciò? perché è andata per sempre in archivio anche la mera promessa della “piena occupazione” (non parliamo della sua realtà, perché non è mai esistita davvero)? e perché sono venuti meno i vecchi margini di compromesso sociale mentre la “ricchezza globale” prodotta dal capitalismo continua comunque a crescere? Le risposte della scienza ufficiale sono penosamente empiriche o sfuggenti perché non sanno, o non possono, puntare il dito sulla causa di fondo di un tale processo: lo stridente antagonismo tra le forze produttive mondiali in grandissima crescita (per l’incremento della popolazione, per la massa di donne disposte a lavorare fuori dalle mura domestiche, per i livelli raggiunti dalla produttività del lavoro, per l’ulteriore perfezionamento dei mezzi tecnici della produzione, etc.) e i rapporti produttivi capitalistici che li comandano, capaci solo di usare tale sovrabbondanza per abbattere, anche attraverso l’arma di ricatto di uno sterminato esercito di riserva del lavoro, il valore del lavoro vivo onde far ripartire a razzo una produzione di profitti sempre più intralciata dello stesso “iper-sviluppo” capitalistico. La soluzione razionale di tale contrasto di fondo che assume sempre più tratti e dimensioni epocali sarebbe semplice: abbattere il tempo di lavoro di tutti i salariati fregandosene altamente di innalzare i costi di produzione dei beni, anzi, mirando proprio a questo: al miglioramento generalizzato delle condizioni di esistenza di chi lavora, sia con la riduzione della fatica che con l’aumento del tempo disponibile al di là del lavoro. Ma una simile razionalità sociale, preconizzata dal comunismo di Marx, è pura follìa per i capitalisti, e dunque è assolutamente vietato anche solo parlarne, perfino in quella Francia, e perfino da quella sinistra francese, che così a lungo si è pavoneggiata di essere all’avanguardia in materia di riduzione (di un nulla!) degli orari di lavoro.

5. Per quanto si sia qua e là fatta (o tentata) l’analogia con il ’68, il ’68 non c’entra. Non siamo nel mezzo (o alla conclusione) di un ciclo di grande sviluppo. Non ci sono veri margini di redistribuzione dei redditi. Non ci sono processi di mobilità ascendente in atto, né classi operaie candidate all’ingresso in “paradiso”. E non c’è neppure una sinistra disposta a cavalcare la protesta per ottenere “vere riforme di struttura”. Anzi. Il movimento, questo movimento che pure si mantiene entro le regole democratiche, si trova ad essere sostanzialmente privo di una sua “rappresentanza” politica. I socialisti e quel che resta del PCF non sono andati oltre le punture di spillo parlamentari nei confronti del governo di destra. I sindacati si sono rifiutati di dare un carattere realmente generale e militante agli scioperi di solidarietà, catalogando lo sciopero generale richiesto da qualche settore degli studenti come un atto insurrezionale, e perciò da aborrire. E proprio sul ruolo da collaudati pompieri delle direzioni sindacali punta il governo per svuotare lentamente dal suo interno il movimento di lotta o, almeno, per isolarlo nell’ambiente scolastico e lasciarlo esaurire lì dentro.
La protesta del marzo francese ha toccato un punto nevralgico del capitalismo d’oggi: la precarizzazione, la svalorizzazione della forza-lavoro, tanto manuale che “intellettuale”, ed è per questa ragione, non prioritariamente per i calcoli elettoralistici di cui invece si ciancia fino alla nausea, che lo scontro è reale e le possibilità di un compromesso sociale “storico”, duraturo, sono piuttosto ridotte.

6. Nella competizione mondiale l’Europa, e la Francia in essa, arrancano. Non possono perdere altro terreno sia nei confronti del capo-branco a stellestrisce che nei riguardi delle nuove nazioni industriali emergenti dell’Asia. L’euro non ha mantenuto le sue promesse, e quanto più ciascuno dei paesi-membri dell’Unione ha ripreso a marciare per proprio conto come prima, se non più di prima, tanto più urge per ognuno di essi rafforzare i fattori differenziali positivi di competitività (è per questo che il “pacifista” Chirac è arrivato ad esternare la minaccia di uso dell’atomica di fronte ad Africa e Medio Oriente e impegna sempre più attivamente le sue truppe all’estero) e ridurre, per contro, i gap.
In questa corsa sfrenata al profitto i traguardi di redditività da raggiungere sono mobili, si spostano di continuo in avanti. La Francia ha già un grado di flessibilità molto alto, anche nel lavoro dei giovani (tanto per dirne una, vi si contano la bellezza di 800.000 stage di lavoro vero e proprio non pagati… -uscirà in aprile da La Decouverte un libro di testimonianze a riguardo intitolato Sois stage et tais-toi, curato dall’Associazione Génération precaire). Per il 75% dei giovani che si sono affacciati al mercato del lavoro nel 2001 il primo impiego è stato a tempo determinato, il tasso di disoccupazione a tre anni dal diploma è in crescita, mentre la differenza tra il salario medio di chi ha meno di trent’anni e quello di chi ne ha più di cinquanta è del 40% ed il tasso di risparmio degli under-30 è crollato dal 18% al 9% in soli cinque anni… Eppure tutto ciò non basta. Nel campo della flessibilità del lavoro giovanile la Francia è, in Europa, seconda solo a Spagna e Grecia, ma deve fare di “meglio” perché lo stesso primato in Europa è ancora poca cosa quando la competizione mondiale stringe.
Di tutto ciò il governo francese è ben consapevole, e pare attrezzato alla bisogna. Non intende cedere alla “piazza”. Non si danno ultimatum alla repubblica francese, ha urlato de Villepin in parlamento, e gli amici politici più stretti di quello Chirac andato all’Eliseo con l’appoggio di una degeneratissima sinistra, hanno bollato lo sciopero generale come “un oltraggio alla democrazia e alla repubblica”. Lo smarcamento di Sarkozy è solo tattico in quanto prospetta la mera sospensione del CPE fino a quando, con la trattativa non lo si sarà fatto digerire anche ai suoi avversari, magari con l’aiuto di una qualche secondaria modifica dolcificante. Ma per il resto, e cioè per l’essenziale, la politica della classe dirigente è chiaramente definita: impedire una ulteriore generalizzazione del movimento in particolare al cuore del proletariato industriale (di qui i citati anatemi contro lo sciopero generale) e delle giovani generazioni operaie; impedire ogni forma di eventuale saldatura tra i giovani delle università e dei licei e la gioventù delle banlieues, usando contro questa, identificata tout-court coi casseurs e la “violenza”, il pugno duro, e contro i primi il guanto di velluto; fare leva sul lealismo dei dirigenti sindacali, e sul loro timore di una radicalizzazione e generalizzazione del movimento che finirebbe per travolgerli, affinché moderino un movimento già di suo abbastanza moderato, e lo portino al tavolo di una trattativa “costruttiva” con il potere; cercare di mobilitare contro il movimento le aree per ora passive del mondo studentesco e universitario che a buona ragione (per nascita, livelli e settori di competenza, appoggi, etc.) o a torto non si sentono minacciate dal CPE; fiaccare la massa oggi in movimento con la propria determinazione a non cedere, il che porta la cosa per le lunghe, e sfidandola a compiere dei passi ulteriori per i quali non sembra pronta… Divisioni secondarie (e inevitabili) a parte, la classe dominante francese mostra di avere una sua politica, che la “machiavellica” proposta di Chirac ben compendia: non mettere in discussione la legge tanto contestata, affinché sia chiara qual è la direzione di marcia in cui andare e chi deve avere l’ultima parola su di essa (non certo la piazza), ma nello stesso tempo predisporne una nuova che ne temperi, per il momento, gli aspetti più sgradevoli in attesa di poter piazzare appena possibile anche il secondo colpo.

7. I governanti francesi, oltre che sul fattore tempo, contano anche di poter utilizzare a proprio vantaggio una tendenza presente nella vita sociale e politica francese, e nient’affatto estranea agli stessi movimenti di lotta: quella che attribuisce i mali da cui il lavoro francese è affetto al processo di mondializzazione e alla importazione passiva del “modello neo-liberista” che si pretende, curiosamente, anglo-sassone. Una prospettiva che postula come via d’uscita dai guai del presente un sortir du monde, una specie di sganciamento nazionale (e nazionalista) dalla globalizzazione, ovverosia una nuova coesione sociale, social-nazionale, “alla francese”, in opposizione a un mondo dominato dall’impero a stellestrisce ed ai propri concorrenti (vedi la stessa vicenda Enel-Suez). Le Pen sta concimando da decenni il suolo di tutte le classi sociali, soprattutto di quelle lavoratrici!, con il veleno del “male che viene da fuori”, nel suo caso dall’immigrazione “selvaggia”; ma anche a sinistra e da sinistra (inclusi gli ambienti “alter-mondialisti” di Le Monde diplomatique) si sta spargendo a piene mani un analogo veleno circa le origini trans-oceaniche delle più brutali politiche “sociali”.
Un tale inquinamento, una simile tragica illusione pesa, crediamo, anche nel movimento in corso. F. Dubet, che ha appena concluso una indagine sulle inquietudini dei giovani francesi davanti alla precarietà, ha dichiarato a Le Monde (19-20 marzo): “Nella nostra inchiesta sul lavoro abbiamo trovato pochi salariati per i quali le ingiustizie [sociali] sono dovute al padronato o ai rapporti sociali [capitalistici]. Al contrario molti pensano in termini nazionali [nazionalistici] e ritengono che sia il mondo esterno a minacciarci”. E’ proprio la tendenza, o tentazione, ad uscire “dal mondo” che “spiega il successo del no al referendum sulla Costituzione europea, in particolare tra coloro che si ritengono i perdenti della storia, nei settori tradizionali in crisi o anche negli impieghi statali, i quali pensano che la propria posizione centrale sta per essere erosa”. Ed è sempre a questo che “si collega la strana alleanza [di fatto] tra una piccola borghesia tradizionale e popolare che si sposta verso l’estrema destra e un ceto medio d’impiegati dello stato che si sposta verso l’estrema sinistra”.
Né si può dimenticare la pressoché totale estraneità della Francia alle pur deboli iniziative no war che si sono date e si danno in Occidente contro le nuove devastanti aggressioni all’Iraq e al mondo arabo-islamico. Da un lato, perciò, abbiamo avuto e abbiamo una sequenza di accese lotte “sindacali”, da cui imparare; dall’altro c’è stata e c’è in Francia una vistosa assenza di sensibilità e di iniziativa politica anti-guerra, internazionalista, vi è stata anzi la convergenza plebiscitaria destra-sinistra sull’elezione e sulla politica “anti-americana” (si è visto quanto!) di Chirac, su un no alla Costituzione europea molto ambiguo (a dir poco), vi sono i maneggi d’un certo altermondialismo gallico assai poco “anti-imperialisti”, e così via. Non è tutto oro ciò che viene d’Oltralpe, e non sono da poco le debolezze del “movimento antagonistico”.

8. Lo si può vedere anche dal modo in cui giovani in lotta si stanno apprestando a fronteggiare la situazione.
Ha scritto B. Kagarlitsky: gli studenti del 2006 sono meno radicali, ma anche meno isolati che nel ’68, e la società francese del 2006 è “più di sinistra” che nel ’68. Se ben inteso, lo si può sottoscrivere. Sono dieci anni che in Francia tutte le lotte “sindacali” di un certo peso, dai ferrovieri ai trasportatori, dal pubblico impiego agli insegnanti e ricercatori, ed ora gli studenti, trovano l’approvazione e il consenso della “maggioranza” della società (piccole, ma molto significative, eccezioni, su cui molto ci sarebbe da riflettere: le lotte dei sans papiers e dei banlieusards…), un chiaro segno dell’ampiezza del malessere trasversale a più classi e ambienti sociali. Nonostante ciò il processo di smantellamento dello stato sociale, l’intensificazione dello sfruttamento del lavoro e della precarizzazione dell’esistenza dei salariati, appunto, non sono stati fermati. E’ vero: il movimento di marzo ha sollevato una questione centrale per il presente e il futuro di tutto il mondo del lavoro, ben al di là della Francia; è per questo che la sua azione ha raccolto simpatie e adesioni molto larghe al di fuori del mondo studentesco. Ma cosa si sta facendo per organizzare stabilmente questo enorme potenziale di lotta e saldarlo in un unico fronte? Poco, ci sembra. Che noi si sappia, solo nella “piattaforma di Digione” il movimento ha ricompreso tra le sue rivendicazioni qualcosa di più della mera abrogazione del CPE, chiedendo la cancellazione dell’intera legge chiamata beffardamente delle “pari opportunità”, un incremento della spesa per la scuola e l’assunzione di insegnanti, la revisione della legge Sarkozy sull’immigrazione e l’amnistia per i giovani delle banlieues. Vi è da domandarsi, però, quanto una simile piattaforma, pur insufficiente, viva per davvero dentro il movimento, ne esprima per davvero “l’anima”. Francamente ne dubitiamo, e non ci affidiamo fideisticamente agli ulteriori sviluppi spontanei del movimento stesso per veder colmata questa lacuna.
Alla politica delle forze capitalistiche (unitaria per entro le differenti articolazioni tattiche) va opposta un’altra politica capace di sintetizzare, di organizzare in chiave anti-capitalistica lo scontento che attraversa l’intero mondo del lavoro e degli strati sociali non sfruttatori, saldando in unità la marea dei già precarizzati con quanti ancora godono di “vecchie” garanzie. Una politica capace di guidare verso un compiuto antagonismo la frattura in atto tra le élites economiche e politiche che concentrano il potere di comando sulla vita sociale e la massa dei salariati e dei giovani senza potere (il che non equivale a: impotenti); di attrarre ad una lotta collettiva non più ipnotizzata dalle soffocanti “buone regole” della democrazia, ma finalmente determinata comme il faut, le frange del movimento ed i giovani più duramente marginalizzati che (sbagliando) vedono nella violenza immediata l’unico modo per esprimere la loro (giusta) ribellione, la loro (giusta) percezione che i margini di mediazione con i poteri costituiti si stanno azzerando; di inglobare senza riserve di sorta le attese e le istanze egualitarie ed anti-coloniali degli immigrati e di quanti, discendendo da immigrati, sono francesi solo sulla carta, sempre i primi ad essere colpiti dalle politiche anti-sociali; di collegare la denuncia di tutto l’arsenale delle misure volte a smantellare lo stato sociale e a precarizzare il lavoro con le aggressioni “esterne”, via FMI o via guerra, ai popoli “di colore” in cui il capitale e lo stato francese sono sempre più attivamente coinvolti, solidarizzando con la resistenza anti-imperialista di questi popoli; di protendersi verso i giovani e il proletariato dell’intera Europa, perché se è vero che i lavoratori e i giovani di Francia ci stanno dando da anni lezioni di “dignità”, non è vero invece che altrove si sia “schiavi contenti d’esser schiavi”. Le barriere di categoria, di generazione, di “razza”, di nazione non cadranno spontaneamente, per quanto esplosiva possa essere la spontaneità; e così pure la separazione, sempre più artificiale peraltro, tra la lotta economica e la lotta politica; esse vanno picconate con metodo da un’azione organizzata di avanguardia che esprima la coscienza di trovarci, alla scala mondiale, alle soglie di una grande crisi sociale e politica, la certezza che oggi più che mai non ci sono soluzioni capitalistiche ai mali sociali prodotti dal capitalismo, né tantomeno ci può essere una soluzione francese, “nazionale” alla precarizzazione, al supersfruttamento del lavoro e a tutto il “resto”; c’è soltanto una soluzione globale, mondiale, comunista, e per essa vale la pena battersi –e pazienza se ciò può suonare ancora per un po’ “vecchio”.
Non ci attendiamo che questo movimento sappia colmare d’un sol colpo, e così com’è, la (grandissima) distanza che lo separa da una maturità antagonistica all’altezza di quella dei suoi avversari di classe; ma chiediamo alle sue componenti più vive di cominciare a muoversi in questa direzione, come lo chiediamo (si veda la nostra parallela presa di posizione sui recenti fatti di Milano) a quanti in Italia non hanno abbandonato il terreno della lotta per frequentare le sotto-segreterie dell’Ulivo invocando da loro qualche segnale purchessia di “discontinuità” dalla politica del cavaliere. La lotta in corso in Francia non va lasciata solo, ci riguarda a fondo, così come la storia sociale e politica del movimento di classe e del movimento giovanile in Francia è parte della nostra stessa storia.

1 aprile 2006