31 marzo 2006

Guerra esterna/guerra interna

Como, una pattuglia del nucleo di sicurezza ha fermato in via Briantea l’auto di cinque giovani sospettati di essere dei writers.
Gli agenti,scesi con le pistole già cariche, hanno effettuato una perquisizione durante la quale uno di loro ha sparato alla nuca di RUMESH, reo di essersi voltato.
Ed ora è in fin di vita.

29 marzo 2006

Inoltra: [JUGOINFO] M. Gombac: bambini sloveni nei campi di concentramento italiani

Fonte: http://it.groups.yahoo.com/group/tera_de_confin/message/11674

www.unive.it/media/allegato/dep/Ricerche/
4-I_bambini_sloveni_nei_campi_di_concentramento_italiani.rtf -


I bambini sloveni nei campi di concentramento italiani (1942-1943)

di Metka Gombac

Il tema dei bambini vittime della guerra non è stato ancora esplorato
a fondo. Benché nella retorica quotidiana i giovani assumano il valore
di simbolo del futuro, ben poco in verità, si è indagato sulla loro
condizione e sulla loro sorte in una guerra senza quartiere, come la
seconda guerra mondiale. Il diario di Anna Frank ha forse consentito a
molti di intuire di che cosa nazismo e fascismo sono stati capaci
contro i bambini, ma, come si può evincere dalla storia qui
raccontata, quello di Anna fu soltanto un tassello di una tragedia
molto più vasta.

La seconda guerra mondiale portò violenze e traumi ai bambini nel
nordest d' Italia (dove furono eretti campi di concentramento) e
nelle regioni contigue della Slovenia e della Croazia (serbatoio di
rastrellati ed internati). Da quando la Jugoslavia entrò nell´orbita
dell'imperialismo italiano, tedesco ed ungherese, per i suoi abitanti
non ci fu più pace. Dopo l'aggressione alla Slovenia (avvenuta il 6
aprile 1941) le forze dell'Asse decisero di dividersi il territorio
conteso: il Reich tedesco optò per le regioni del nord (lo Stayer e la
Carniola superiore), l'Ungheria per le regioni a ridosso del fiume
Mura e l'Italia per le regioni che dalla Sava scendevano verso sud,
verso la provincia di Fiume e verso la Croazia. Le forze d'occupazione
italiane tentarono di assimilare su un territorio di 4.450 chilometri
quadrati ben 336.279 sloveni che, con il decreto reale 291 del 3
maggio 1941, istitutivo della Provincia di Lubiana (fuori da ogni
legge di guerra), divennero sudditi del Regno d'Italia. Mussolini
nominò a capo di questa Provincia due funzionari, Emilio Grazioli come
Alto Commissario per le questioni civili e il generale Mario Robotti,
comandante dell XI armata, per le questioni militari. Anche se i
rapporti ufficiali delle autorità che da Lubiana andavano a Roma
notificavano un' occupazione relativamente tranquilla, l'OF, il fronte
di liberazione sloveno (una coalizione formata da comunisti, da
cristiano sociali e da frange dissidenti liberali), che dal 27 aprile
1941 dirigeva da Lubiana tutto il movimento di liberazione, accertava
che già nei primi giorni d'occupazione ben 400 intellettuali sloveni e
fuoriusciti dalla Venezia Giulia erano stati rinchiusi senza alcun
fondato motivo. Era vero dunque, come riferivano i rapporti dell'OVRA,
che sotto una pace apparente covava il malcontento e che gli sloveni
mal sopportavano l'occupazione italiana. Anche a parere di Natlacen,
Pucelj e Gosar, i dirigenti politici dei partiti sloveni che avevano
scelto di collaborare, l'occupazione da parte delle forze tedesche
sarebbe riuscita più gradita dell'occupazione italiana. Stereotipi di
superiorità verso i latini, stereotipi diffusi in Austria già dal
tempo di Radetzky, suggerivano ai lubianesi una preferenza esplicita
per il Reich. Il malcontento cresceva anche a cusa dei frequenti posti
di blocco, dell'introduzione della lingua italiana
nell'amministrazione e nella scuola pubblica e dell'impatto negativo
dell'esercito con la realtà locale. Inoltre le manifestazioni di
esplicito razzismo non potevano non incrinare le relazioni tra le
forze d'occupazione e la realtà locale. Dichiarazioni come quella del
prefetto Temistocle Testa che gli sloveni erano «un popolo che ogni
giorno di più sta dimostrando di essere quello che sempre è stato,
cioè una razza inferiore che deve essere trattata come tale e non da
pari a pari», sono un significativo esempio[1].

Dopo l'attacco all'Unione sovietica, l'OF, il movimento di liberazione
sloveno, proclamò la guerra armata contro tutti gli invasori,
organizzando a Lubiana, ma anche in altri luoghi della Slovenia, una
rete di strutture illegali tra le quali la Difesa popolare, il
Servizio di informazioni, il Servizio per il finanziamento della
lotta, il Centro di raccolta viveri e armi e il Soccorso nazionale
sloveno (sulla falsariga del Soccorso rosso). Lo stesso schema venne
ripetuto nelle città di Vrhnika, Logatec, Novo Mesto, Kocevje,
Crnomelj e altre ancora, dove esistevano già alcuni gruppi di
partigiani armati pronti ad agire. Per mobilitare la popolazione si
istituirono sistemi di comunicazione illegali (radio e quotidiani) che
dovevano creare un' atmosfera utile al boicottaggio generale di tutte
le forze d'occupazione[2].

Uno dei primi ordini per colpire le comunicazioni ferroviarie e
stradali fu dato il 19 ottobre 1941. I gruppi armati partigiani
attaccarono con successo nelle zone boschive vicino a Vrhnika il ponte
di Verd e per qualche tempo tutti i collegamenti ferroviari e stradali
da Lubiana all'Italia furono interrotti. Questa azione soprese i
comandi dell'esercito d'occupazione che reagì con una controffensiva
organizzata dal generale Robotti il quale si avvalse della sua
competenza nella lotta antipartigiana. Ma questo continuo passare al
settaccio regioni intere creò tra la popolazione residente un grande
disagio e un grande malcontento, da cui trasse vantaggio la resistenza
slovena che andò ingrossando le file del proprio movimento.

Anche se i reparti armati partigiani dovettero temporaneamente
ritirarsi in zone più sicure (un triangolo tra Lubiana il confine con
la Croazia e la Provincia di Fiume), un mese più tardi il comando
italiano constatò che le azioni partigiane si stavano ripetendo e che
molte postazioni periferiche non potevano più essere mantenute. Gli
attacchi alla cittadina di Loz (19 ottobre 1941), al ponte di Preserje
(4 dicembre 1942) e nuovamente al viadotto di Verd (2 febbraio 1942),
sulla linea ferroviaria Lubiana - Trieste, crearono difficoltà
insormontabili ai vertici dell' esercito. Fu allora che il generale
Mario Robotti pensò dapprima di regolare i conti con il suo
concorrente per gli affari civili Grazioli e poi di mettere a ferro e
a fuoco tutta la regione a sud della capitale slovena. Nel gennaio del
1942 egli sottolineò che tutta la provincia di Lubiana, e in
particolare la sua capitale, andavano considerate zona di operazioni.
Consapevole del fatto che la direzione della resistenza slovena aveva
sede a Lubiana, Robotti decise di porre la citta' sotto controllo
cingendola con cerchi concentrici di filo spinato intervallati da
posti di blocco superabili soltanto con lasciapassare italiani. Sin
da 23 febbraio 1942 la divisione di fanteria «Granatieri di Sardegna»,
coadiuvata dai carabinieri, dalla polizia e dalla guardia alla
frontiera, dette il via alla cosidedtta azione di disarmo della
popolazione cittadina, ossia ad accurate perquisizioni delle persone e
delle loro abitazioni. Ogni giorno fu sottoposto a tale provvedimento
uno dei quattordici settori della città e tutti gli uomini tra i venti
e i trent' anni di età vennero trasferiti nella caserma Vittorio
Emanuele III di Tabor per essere identificati da delatori sloveni che
vestivano uniformi italiane. Questo grande rastrellamento si protrasse
a Lubiana per ben 19 giorni, fino al 14 marzo 1942, e i dati riportati
nei rapporti parlano della cattura o dell'arresto di ben 20.037
persone. Anche se questa imponente serie di rastrellamenti urbani non
riuscì a intaccare la struttura dirigente della resistenza slovena,
molti resistenti dovettero subire un destino segnato da baracche e da
filo spinato. Sui treni che partivano verso i campi di concentramento
di Gonars, Visco e Renicci presero posto moltissimi attivisti e
attiviste del fronte di liberazione, ma anche tanti e tante
intellettuali ed ex ufficiali dell' esercito jugoslavo. Più tardi
l'azione repressiva si intensificò con l'attività del Tribunale
militare di guerra (TMG) che iniziò la sua attività nella primavera
del 1942 con la condanna a morte di 28 partecipanti alla distruzione
del viadotto di Preserje. Il TMG continuò ad operare fino all'
armistizio dell' 8 settembre 1943[3].

Dopo l'ordine di Mussolini a Gorizia del 31 luglio 1942, secondo cui
bisognava «ammazzare tutti i maschi slavi», il II Corpo d' Armata
pubblicò, in forma riservata, un documento volto stroncare il
movimento di resistenza sloveno, e cioè la Circolare 3 C, contenente
le direttive per la repressione sia del movimento armato che dei
civili in Slovenia. La circolare fu firmata dal generale Mario Roatta,
militare di professione, nato a Modena nel 1887 e comandante dal
gennaio del 1942 della II armata, quella che controllava la Dalmazia,
la costa croata e le zone montane della Provincia di Lubiana. Nel 1944
Roatta fu condannato dagli alleati all' ergastolo in contumacia[4].

Fu in base ai suoi ordini che l'esercito italiano effettuò una serie
di massicci rastrellamenti contro la popolazione civile, che si
protrassero dall'estate 1942 fino all'autunno dello stesso anno. Ben
70.000 soldati italiani dislocati sul fronte balcanico passarono al
settaccio un terreno di 3.000 chilometri quadrati a sud di Lubiana,
dove vennero rasi al suolo centinaia di paesi, effettuati massacri
indiscriminati di ostaggi e da dove vennero mandati in internamento
nei cosiddetti «campi del Duce» circa 30.000 persone, in gran parte
donne, vecchi e bambini. Due di questi campi di concentramento per
civili furono istituiti a ridosso del fronte SLO-DA verso i
partigiani, uno sull´isola di Rab - Arbe e l´altro sull´isola di Olib,
altri ancora furono eretti a ridosso del vecchio confine
italo-austriaco in Friuli e nel Veneto nelle località tristemente note
di Gonars, di Visco, di Monigo presso Treviso e di Renicci presso
Padova[5].

A soffrire di più in questi campi furono senz´altro i bambini. Sembra
che fino ad ora, né la storiografia, né le testimonianze orali siano
riuscite a tracciare una quadro esauriente del vissuto dei bambini,
l´anello piu' debole nella catena di coloro che nel corso del
conflitto subirono violenza. Il bambino rimane ancora sempre
fatalmente legato al mondo degli adulti, soprattutto nelle condizioni
estreme portate dalla Guerra e dall´internamento. In riferimento ai
bambini che hanno subito la violenza di un campo di concentramento, si
parla generalmente di «infanzia violata», di una sindrome, dunque,
indelebilmente impressa nella loro memoria. Come ebbe a dire nel corso
di un´intervista Herman Janez, uno dei bambini sopravissuti sia al
campo di Rab che a quello di Gonars: «dal 1952 sono ritornato a Rab
per ben 52 volte per ricordare i miei parenti e tutti quelli che sono
morti lì, ma anche per ritrovare un pezzo di me stesso. La mia
infanzia è rimasta per sempre lì»[6].

Nell´aggressione italiana alla Slovenia, anche i bambini, al pari
delle generazioni adulte, pagarono il loro prezzo in termini di
violenza e terrore. Conobbero fatalmente anche i rastrellamenti, gli
incendi, la morte, lo stigma razziale e nazionale, la
snazionalizzazione forzata e la deportazione nei campi di
concentramento dove andarono incontro all´eliminazione fisica nella
forma più brutale. Quando la guerra nella provincia di Lubiana divenne
totale, gli adolescenti, assieme ai loro genitori, si ritrovarono in
una condizione di disorientamento e smarrirono la propria gioventù.
Qualcuno li aveva spinti in un mondo che non era il loro mondo e
questo qualcuno aveva progettato per loro la deportazione nei campi e
l´incontro quotidiano con la morte.

Indagando le motivazioni di questo terrore generalizzato, ho
incontrato presso l´Archivio di Stato sloveno una serie di scritti e
di disegni infantili, che parlano proprio delle condizioni di vita dei
bambini sopravissuti ai campi del Duce. L'impulso a redigere questi
scritti fu dato a questi giovani diseredati dalle autorità scolastiche
partigiane nei territori liberi già negli anni 1944-45, per
salvaguardare in questo modo la memoria e la personalità di queste
piccole vittime della guerra. In una dichiarazione scritta da Drago
Kalicic di dieci anni si può leggere:

Io sono senza padre. È stato fucilato dagli Italiani. Un giorno sono
entrati nel mio paese. Ci hanno fatto uscire dalla casa. Tutti
piangevamo disperati ma mia mamma era quella che forse piangeva di
più. Hanno preso e rinchiuso mio padre. Con lui hanno portato via
tanti altri uomini. Poi ci hanno fatti andare in fila verso il paese
di Zamost dove hanno fucilato dodici uomini. Tra questi c´era anche
mio padre. Quando lo abbiamo saputo abbiamo pianto tanto. Poi hanno
bruciato la nostra casa e ci hanno portati verso l´internamento[7].

I deportati, e soprattutto i bambini, conobbero una nuova drammatica
realtà, quella di dover sopravvivere nei campi di concentramento,
praticamente senza cibo, con poca, pochissima acqua e in condizioni
igeniche e sanitarie inumane. A causa di queste condizioni morirono
nel breve, ma anche nel lungo periodo, numerosissimi adulti persero la
vita e anche tanti bambini. La prima vittima del campo di Rab - Arbe
fu proprio un bambino, Malnar Vilijem, nato a Zurge presso Cabar il 22
maggio 1942. Così scrisse nella cronica del monastero francescano di
Sant' Eufemia di Rab, il frate Odoriko Badurina: «Ieri, 5 agosto 1942,
abbiamo sepellito nel locale cimitero un piccolo angelo di due mesi,
Vilijem Malnar, la prima vittima tra questi internati»[8].

La condizione degli internati variava da campo a campo. Se per il
campo di concentramento per civili di Gonars in Friuli, gestito dal
Ministero degli Interni, si può affermare che rispondesse a requisiti
minimi di vivibilità (pacchi, posta, biancheria personale ecc.), la
situazione nei campi di internamento parallelo, come li definì Carlo
Spartaco Capogreco, era completamente diversa. Qui, gli internati,
donne, vecchi e bambini, erano costretti ad una disperata lotta per la
sopravvivenza, nascosti al mondo ed anche agli occhi indiscreti della
Croce Rossa internazionale. L'esercito italiano, che gestiva questi
campi (Rab, Olib), aveva già alle spalle una certa esperienza nella
realizzazione di campi di concentramento; basti pensare a quelli
eretti in Libia dal generale Graziani in cui trovarono la morte
migliaia di internati. Il campo di concentramento di Rab - Arbe
rispondeva proprio al modello dei campi creati da Graziani in Africa e
non fu per caso che a Rab - Arbe e negli altri campi gestiti
dall´esercito morirono di fame, di sete, di freddo e di stenti
migliaia di civili[9].

Il sistema concentrazionario realizzato dall´esercito italiano nei
territori occupati della Slovenia, per il numero dei deportati e delle
vittime e per i metodi di gestione realizzati a Rab - Arbe, ricordava
più i peggiori campi di concentramento africani, che non le forme di
internamento degli oppositori del regime. La stessa presenza di
vecchi, donne e bambini nei campi è illuminante a proposito. Tutti i
campi realizzati dall´esercito nel corso della seconda guerra mondiale
furono definiti ufficialmente «campi di concentramento». Carlo
Spartaco Capogreco ha definito giustamente illegale o meglio «fuori
legge» l´internamento dei civili sloveni praticato dal regime fascista
dopo l´invasione della Jugoslavia. Invasione, che peraltro avvenne al
di fuori di ogni legge di guerra con il bombardamento improvviso di
Belgrado e, in seguito, con l´annessione della Slovenia all´Italia già
nel corso della guerra. Occorre anche distinguere, e in questo ci
aiuta molto l'analisi di Tone Ferenc, tra la violenza espressa in
queste zone dall'esercito italiano nel 1941, violenza mirata ad
obiettivi politici e militari ben definiti, e quanto avvenne a partire
dal 1942, quando fu decisa e attuata una vera e propria strategia del
terrore verso la popolazione civile. Le nuove direttive proposte da
Roatta e dagli alti comandi, in un quadro ideologico marcatamente
razzista, prevedevano l´utilizzo contro i civili degli stessi metodi
applicati dai nazisti sul fronte orientale: dall´incendio dei
villaggi, alla fucilazione degli ostaggi, alla deportazione in massa
in campi di concentramento per creare il vuoto attorno alle forze
partigiane. In questo quadro non dovrebbe sorprendere che il tasso di
mortalità registrato nel campo di concentramento di Rab - Arbe, a
causa della fame, del freddo e delle spaventose condizioni igenico -
sanitarie, sia stato per lunghi periodi superiore a quello dei
peggiori campi di concentramneto nazisti, se si escludono quelli di
sterminio. La differenza consiste solo nell´assenza di camere a gas e
di crematori, sostituiti però da condizioni di vita insopportabili, di
cui, ovviamente, furono i bambini le vittime principali. Si tratta in
ogni caso di morti che non possono essere attribuite a fattori casuali
e non previsti, come potrebbero esserlo le espidemie in conseguenza
del sovraffollamento. L´alto numero dei decessi è il risultato di
decisioni prese a tavolino, nel momento in cui si programmava, ad
esempio, un vitto del tutto insufficiente. Ciò avveniva, sia per non
sottrarre risorse all´esercito, sia per rendere i prigionieri più
deboli e quindi più controllabili con il minor impiego di truppe. Non
si condanna a morte, quindi, ma si lascia morire, e questo non solo
nell´inferno di Rab - Arbe. A morire per primi furono i bambini, sia
quelli giunti con le tradotte, che quelli nati nei campi.
L´internamento e la morte dei neonati venivano considerati dai vertici
dell´esercito un collateral damage, da non prendersi seriamente. Le
rubriche ufficiali del campo di Rab - Arbe distinguono i decessi
unicamente secondo il genere. Se non fosse per i documenti d´archivio
e per le testimonianze dei soppravvissutti, non saremmo mai riusciti a
sapere che le vittime più numerose del campo di Rab - Arbe furono
proprio i bambini. Questi arrivavano al campo con i genitori o, se
orfani, con parenti o conoscenti. Così Herman Janez, che nel 1942
aveva 7 anni, ricorda l´arrivo a Rab - Arbe:

Dalle nostre montagne ci hanno trasportato fino a Bakar, un'
insenatura a sud di Fiume, dove abbiamo dormito all' addiaccio. Mio
nonno stette tutta la notte a ripetere che ci avrebbero buttati in
mare. Il giorno seguente partimmo senza sapere dove ci portassero.
Giungemmo a Rab, dove ci divisero per sesso e per età. Praticamente ci
avevano diviso definitivamente. Io che ero senza madre dovetti
lasciare mio padre e mio nonno per andare nella parte del campo
riservato alle donne e ai bambini. La paura di restare solo mi fece
urlare e piansi così fino al giorno successivo, quando mi trasferirono
in un campo intermedio. Mio padre non l´ ho più avuto vicino e
soltanto a Gonars mi riferirono, alcuni mesi più tardi, che era morto.
Dormivamo in tende vecchie e logore che facevano passare l´acqua e
dove si entrava a carponi. La latrina era molto lontana e di notte
facevamo fatica a raggiungerla. Nel caldo torrido dell´estate non si
poteva trovare alcuna ombra. Pativamo la sete, la fame e l´attacco di
una moltitudine indicibile di pidocchi. Il ruscello che scendeva dal
campo maschile e attraversava il nostro campo era pieno di pidocchi e
non ci si poteva lavare. Quando arrivava la cisterna dell´acqua le
guardie si scostavano e noi ci buttavamo come pazzi su quel fievole
rivolo d´ acqua. Quando pioveva il campo diventava una distesa di
fango impercorribile. La sporcizia ci faceva impazzire[10].

Quando nella notte dal 28 al 29 settembre 1942 un nubifragio travolse
il campo femminile e l'acqua di mare salì fino alle tende, molti
bambini morirono scomparendo nei flutti. Le autorità del campo non
fecero niente per salvare gli internati, ma dopo un po' incominciarono
i trasferimenti nel campo superiore chiamato Bonifica e le tende
vennero sostituite da baracche. Poiché la mortalità aumentava di
giorno in giorno, le autorità militari, verso la fine del 1942,
decisero di trasferire i bambini e le donne più provati in altri campi
di concentramento, come quelli di Gonars e di Visco[11].

Una sopravissuta, Marija Poje, che oggi ha 84 anni e vive a Podpreska
vicino a Draga, nelle vicinanze di Loski potok, e che trascorse 5 mesi
infernali al campo di Rab - Arbe con il suo bambino, ricorda così il
trasferimento a Gonars:

In una mattina fredda e piovosa di dicembre ci hanno fatti salire su
una nave stracolma che avrebbe dovuto trasportarci non si sapeva dove.
Quel giorno fuori dal porto si vedevano le onde alte e burrascose. La
stiva era stipata da tantissima gente, però qualcuno ebbe pena di me e
del mio bambino e ci fece sedere nella stiva riparati dalla pioggia e
dall'acqua di mare. Giungemmo a Fiume la mattina seguente,
infreddoliti e affamati. Ci diedero una tazza di caffè e un pezzo di
pane, prima di farci salire sul treno che ci trasportò fino a
Palmanova. Poi con dei camion venimmo trasportati al campo di
concentramento di Gonars dove ci misero nelle baracche. Per noi era
una meraviglia sentire la pioggia e rimanere asciutti, perché a
Rab, se pioveva, anche stando nelle tende eravamo tutti bagnati. Ci
portarono poi in infermeria per disinfestare i nostri vestiti dai
pidocchi e farci fare la doccia. Chiesi a qualcuno che stava lì dove
dovevo posare il mio bambino prima di entrare nel reparto docce e mi
dissero di posarlo su un mucchio di stracci per quel po' di tempo. Ma
appena entrata nello stanzone qualcosa mi fece uscire per vedere se il
mio bambino fosse sempre lì. Mi si strinse il cuore, quando vidi che
non c' era più. L'inserviente alla fornace a vapore dove passavano i
vestiti per disinfestarli dai pidocchi aveva preso il mucchio dove
avevo posato il bambino gettandolo nella stufa. Per fortuna non
l'aveva ancora attivata e un gemito si sentì proprio in quella
direzione. Corsi verso quella stufa a vapore come una matta
riprendendomi il mio bambino. Mia suocera mi aiutò molto, asciugando i
pannolini bagnati sulla schiena. Ma alla fine questo bambino non
sopravvisse e non sopravvisse neppure mia suocera e neanche il bambino
che dovevo ancora partorire[12].

Nel campo di Gonars, dove dal 1942 erano passati molti internati della
provincia di Lubiana, l´arrivo di centinaia di questi poveretti
provenienti dal campo di Rab - Arbe (i miserabili di Rab) provocò un
profondo sconvolgimento tra gli internati del campo. La vista di
quegli scheletri ambulanti provocò in molti un intenso sentimento di
compassione e diede impulso a gesti di solidarietà. Molti cercavano
di aiutare i superstiti di Rab dando loro il cibo che arrivava
dall´esterno con i pacchi, o capi di vestiario vecchi, oppure
semplicemente fornendo loro notizie fresche. I volti di quei bambini
ammutoliti, che restavano fermi negli angoli per giorni interi senza
muoversi, restarono impressi non solo nei disegni del pittore Stane
Kumar, ma anche nella memoria di tanti internati, bambini compresi.
Ricorda nel suo scritto Milan Cimpric di 9 anni:

A Gonars si pativa una tale fame che faccio meglio a non pensarci.
Mangiavamo anche le bucce che i cuochi buttavano nella fossa delle
immondizie. Una volta siamo caduti tutti quanti in questa fossa e io
ero sotto. Gli altri sono cascati sopra di me. Avevo male alle ossa.
Ho trovato poche bucce. E' stato così triste a Gonars[13].

Queste memorie infantili scritte in pieno tempo di guerra sono
toccanti anche per il loro linguaggio semplice, senza abbellimenti, ma
con l´aggiunta di disegni e schizzi che vorrebbero rappresentare quei
piccoli episodi di felicità o di paura che si erano fissati nella
memoria dei bambini durante la permanenza nel campo di Gonars.

La vita degli adulti nei campi era assorbita dai tentativi di
arrangiarsi e sopravvivere. Ma era difficile non vedere che la
sofferenza dei bambini aumentava di giorno in giorno. I bambini più
provati erano soprattutto quelli senza genitori, benché si trovasse
sempre qualcuno che prendeva il loro posto. Stane Kumar, noto pittore
sloveno anch´egli internato, aveva pensato di alleviare il proprio
dolore facendo degli schizzi ai bambini affamati sia nel campo di Rab
- Arbe che in quello di Gonars. Nelle sue memorie parla della
terribile fame che rendeva i bambini apatici e anemici:

Ho visto la fame della prima guerra mondiale, ma quella non era fame
vera. Quella veramente reale era la fame nei campi dove ad ogni passo
ritrovavi due paia di occhi che ti chiedevano di sfamarli, di dar loro
qualcosa da mangiare. I bambini diventavano ottusi e stavano seduti
negli angoli delle baracche senza parlare. Morivano in tanti di fame e
tu non potevi far niente[14].

Che i bambini fossero l´anello più debole della catena dei diseredati
finiti nei campi di concentramento italiani, lo conferma l´«amnesia»
della direzione dei campi stessi, che dimenticò di annotare, tra i
25.000 internati sloveni, il numero dei bambini che fecero il loro
ingresso nel campo, il numero di quelli che vi nacquero e che vi
persero la vita. Alcuni dati sporadici della fine di agosto del 1942
parlano, per il campo di Arbe, di 1000 bambini sotto i 16 anni, mentre
per il campo di Monigo presso Treviso i dati a nostra disposizione per
il 1943 parlano di 979 bambini su 3.188 internati. Anche se sulle
deportazioni e sull´occupazione italiana della provincia di Lubiana,
esiste oggi in Slovenia una vasta documentazione, molti dati sui campi
sono tuttora irreperibili, sia per la fretta con la quale le forze
d´occupazione lasciarono la Slovenia, sia perché le autorità, nella
loro ignominia, non badavano troppo alle cifre dei vivi o dei morti,
degli arrivi e delle partenze, delle nascite e dei decessi nei campi.
Per una riflessione su queste reclusioni forzate ci restano le
testimonianze dei sopravvissuti e i componimenti dei bambini ai corsi
scolastici organizzati nei territori liberi partigiani:

Erano corsi - ricorda Herman Janez - che venivano organizzati proprio
in questa stagione 60 anni fa. E' giugno. Le giornate sono lunghe e
calde. Siamo gli alunni delle scuole partigiane di Podpreska, di
Draga, di Trava, di Osilnica sul fiume Kolpa. Le lezioni vengono
tenute quando non ci sono rastrellamenti in corso. Soprattutto a
Podpreska e a Draga. Maestre pronte al sacrificio ma umili e gentili
vedono davanti a sè nelle classi improvvisate i volti di questi alunni
già provati seriamente dalla tragedia dei campi, segnati per tutta la
vita. Noi siamo i bambini della guerra. Le lezioni ormai si svolgono
tutto l'anno dal gennaio 1944 in poi. Si svolgono nelle case
risparmiate dalla guerra, nelle camere dei contadini locali dove
troneggiano stufe di terracotta enormi che mai si spengono. Qui siamo
a 1000 metri d'altezza e le patate appena crescono. Gli occhi dei
bambini sono grandi. Sono vestiti malamente e in generale sono tutti
scalzi. Qualcuno li accompgna a scuola e qualcuno viene a riprenderli.
Sono tanti, ma la maestra Nada Vrecek del paese di Trava, numero
civico 96, è la maestra con il maggior numero di alunni. Tra loro ben
74 sono senza padre. O è morto a Rab o è stato fucilato come ostaggio.
Soltanto uno è stato fucilato dai partigiani. La maestra Nada è in
continuo movimento, ora per ora, giorno per giorno, perchè le lezioni
si tengono in case diverse. Gli alunni sono stati assenti da scuola
per due anni e allora si capisce che c' è ancora tanto da fare. Una
volta forse scoppierà la pace e allora voglio, diceva Nada, che siate
alla pari con queli che non hanno perso 2 anni di scuola. Queste
scuole improvvisate non hanno né lavagne né banchi e i bambini sono
senza libri e senza quaderni. Rifanno la materia a memoria. Se qualche
gruppo partigiano attraversa il paese, si rimedia una o due matite,
che vengono attentamente tagliate in 3 pezzi, per essere poi divisi
tra gli alunni. Questi scolari, questi «miei poveri bambini», diceva
sempre Nada, un giorno diverranno adulti. Si dovrano promuovere in una
società che non ricorderà i patimenti patiti. Un giorno sarete tutti
uguali e Dio vi benedica per questo, ma attenzione, nessuno vi darà
dei privilegi per quello che avete patito. Quelli che sopravviveranno
dovranno lottare per il pane quotidiano. La maestra Nada Vrecek ha
insegnato per 54 anni. Oggi è nel suo novantaseiesimo anno di età.
Ancora oggi è solita ripetere che «gli anni passati tra questi bambini
sono gli anni piu' sentiti della mia vita e non vorrei mai dimenticare
nessuno tra loro». Ma noi eravamo pieni di paura. Eravamo ancora
abbastanza magri e non potevamo stare mai fermi. C'era ancora la
guerra, molte case erano ancora allo sfascio, gli ex internati erano
ancora privi di tutto. Si temevano soprattutto i collaborazionisti,
che si facevano vedere soltanto quando non c´erano partigiani in
circolazione. Si sapeva che la loro comparsa era accompagnata dalla
morte. Si facevano chiamare «quelli della mano nera» ed erano
veramente pericolosi. Per non mettere in difficoltà la nostra maestra,
alla loro comparsa cantavamo canzoni di chiesa e al saluto
provocatorio di «morte al fascismo» rispondevamo «buon giorno
signori». Parlavamo molto tra noi. Soprattutto alla sera si parlava
dei patimenti subiti, dei nostri genitori scomparsi, della fame e
della sete. Noi bambini internati avevamo sempre molto da raccontare.
A volte queste storie venivano soffocate da un pianto sfrenato al
quale seguiva il pianto di tutti noi. Rivivevamo così la nostra
tristezza, la nostra paura e il ricordo dei nostri cari. Vivevamo
assieme la nostra grande miseria umana, che qualcuno pensò sarebbe
bene esternare e farci passare così il trauma subito[15].

Negli scritti e nei disegni dei bambini internati conservati presso
l´Archivio di Stato di Lubiana si può intravvedere questo trauma della
fame e dell´inedia a cui si univa l´inclemenza della natura. I maestri
che proponevano i temi e che poi di volta in volta annotavano i voti
sui fogli, erano essi stessi dei sopravvissuti ai campi e qualcuno di
loro aveva perduto in quell´inferno il proprio bambino o uno dei suoi
cari. Erano dunque le persone più adatte per accogliere il dolore dei
bambini passati nei campi e comprendere i loro traumi[16].

Essi sapevano che quelle tende, di volta in volta fradice e
surriscaldate, non sarebbero mai scomparse dalla memoria dei bambini e
che le esperienze narrate nello scritto di Ivan Stimec di 10 anni non
si sarebbero mai cancellate:

Siamo stati deportati a Rab. Abbiamo vissuto in tende vicine al mare.
Dormivamo sulla terra nuda. Una notte mentre dormivamo, il vento
incominciò a soffiare ed incominciò a piovere. L'alta marea era
cresciuta e l'acqua ci arrivò fino alle ginocchia. Abbiamo pianto e
chiamato aiuto. Volevamo scappare, ma le guardie non ci lasciarono
uscire dal recinto. Il mare continuò a crescere e molti bambini
morirono annegati, mentre i nostri vestiti furono trascinati via dall´
acqua. La mattina dopo la burrasca si calmò e uscì il sole asciugando
e scaldando i nostri corpi, scossi dal freddo e dalla paura[17].

La serie dagli scritti infantili continua con i ricordi delle delle
cose belle e calde legati al tempo antecedente la distruzione dei
paesi. I bambini rivedono le mucche lasciate sole a casa, o il viaggio
verso l'isola di Rab - Arbe, o le cose di casa, il fuoco nel cammino o
la casa stessa. Come scrisse Vera Cimpric di 9 anni:

Sono stata internata per 9 mesi. Pensavo spesso alla mia casa perduta.
Ma quello che mi faceva piu' male era il pensiero del nostro bestiame.
Quelle che preferivo erano le mucche, perchè ci davano tanto latte. Si
chiamavano Ruska e Breza. Quando dovevo pascolarle, pensavo che era
difficile pascolare sempre le mucche. Ma durante l´internamento dove
non avevamo né da mangiare né da lavorare, pensavo a quanto fosse
bello essere sazi e pascolare. Dio, fa´ che possiamo avere ancora del
bestiame[18].

In tutti questi scritti la morte è onnipresente: si ricorda un coro
che canta sulla fossa di una sorella morta o una scatola di cartone
contenente il corpo di un amico ridotto ad uno scheletro. Come scrisse
Mrle Slavka di 9 anni:

Tutti ci chiamano internati perché siamo stati internati. Siamo stati
a Treviso. Avevamo tanta fame. A Treviso e' morto mio fratello. Avevo
ancora un fratello. Quando è ritornato dall´internamento è morto
all´ospedale di Susak. Quando lo abbiamo saputo abbiamo pianto molto[19].

Accostando le storie dei bambini ai dati d'archivio si può intravedere
una realtà agghiacciante. Come riferiva il generale Giuseppe Gianni,
da luglio a novembre 1942, a Rab - Arbe morirono ben 104 bambini.
Davanti a questi fatti le autorità italiane d´occupazione presero due
decisioni: la prima ordinava l'evacuazione di donne e bambini da Rab -
Arbe verso il campo di Gonars, la seconda ordinava ad una squadra di
fotografi di documentare le condizioni di vita nel campo. Da Rab -
Arbe a Gonars furono trasferiti tra il 21 novembre e il 5 dicembre
1942 ben 1.163 donne, 1.367 bambini e 61 uomini adulti[20].

L' 8 settembre 1943 il regio esercito italiano si dissolse. Dalla
Slovenia e dalla Jugoslavia lunghe colonne di militari disarmati
presero la via dell'Italia e anche i campi di concentramento aprirono
le loro porte. Come ricorda Marica Malnar di 10 anni:

Siamo stati internati a Treviso, avevamo fame e in inverno pativamo il
freddo. Parlavamo sempre di come era bello a casa. Volevamo andare a
casa. Un giorno i soldati entrarono nella nostra camerata e ci dissero
che saremmo tornati a casa. Lo stesso giorno siamo partiti verso casa.
Questo è stato per noi un giorno felice[21].

Nelle colonne che partivano dai campi, i bambini orfani venivano
accompagnati da parenti o gente comune, che davano loro una mano, un
pezzo di pane o di rapa. Attraversando passo dopo passo il Friuli,
qualcuno rivolgeva loro la parola e offriva un piatto di polenta. Al
momento del ritorno a casa videro tanti edifici bruciati, le stalle
distrutte e i fienili sfondati. Gli ex internati, malridotti e
affamati, dovettero organizzarsi da soli. Un grande senso di
solidarietà permise a questa gente di sopravvivere, ma alla fine
dovettero rivolgersi ai comandi partigiani, che erano però impegnati a
fronteggiare una pesante offensiva tedesca. Soltanto più tardi i
reduci dei campi ebbero un aiuto concreto dalle organizzazioni civili
della resistenza che si erano organizzate nelle zone libere. Si
provvide prima di tutto ai bambini orfani e a quelli che erano rimasti
senza casa, senza parenti o senza altre possibilità. A molti di questi
bambini l'organizzazione delle donne antifasciste (AFZ) e
l'organizzazione della gioventù socialista permisero di raggiungere
regioni non devastate dalla guerra e in cui si era istituito un
servizio scolastico[22].

L'organizzazione del Fronte di Liberazione Sloveno aveva pensato di
organizzare il servizio scolastico già dal 17 maggio 1942 attraverso
l'emanazione di un decreto che prevedeva l'organizzazione della scuola
nei territori liberati. Accanto alla lotta armata il movimento di
liberazione cercava di organizzare anche la vita civile: scuole,
ospedali, un istituto di credito e uno giuridico. Nelle zone libere
della Kocevska, lontano dalle vie di comunicazione, si era pensato di
far funzionare uno Stato partigiano in alternativa a quello di
occupazione. La scuola partigiana si sviluppò in tre fasi. Nel 1942
l'organizzazione della vita scolastica fu un progetto limitato, nato
dall'iniziativa di alcuni maestri dei reparti partigiani che avevano
pensato di istituire dei corsi scolastici per bambini delle scuole
elementari locali. Più tardi, dopo la capitolazione dell'esercito
italiano e dopo la formazione di vasti territori liberi,
l'organizzazione scolastica partigiana divenne oggetto di una
normativa da parte del Fronte di Liberazione che a partire dall'
autunno del 1944 organizzò la scuola in settori distrettuali e
circoscrizionali. La popolazione locale collaborò al buon
funzionamento della scuola. Si pensò inoltre di istituire corsi
supplettivi per chi era privo di istruzione e di articolare meglio il
lavoro dei maestri che si svolgeva in condizioni tanto difficili. Per
dare un senso a tutti questi sforzi, si pensò anche di organizzare un
concorso in componimenti che avrebbero dovuto compattare il tessuto
sociale di quanti avevano provato tutte le paure e i traumi della
guerra. La sezione scolastiva dell' OF promulgò allora un bando nel
quale si invitavano gli alunni delle scuole partigiane a scrivere la
propria storia sui patimenti vissuti nei tre anni di guerra. I temi
del concorso dal titolo «I bambini ci parlano» e «I bambini nei campi
di concentramento» volevano far ripercorrere a questa generazione
perduta la via delle sofferenze patite per ricucire il trauma e
rielaborare l'esperienza[23].

È così che si sono conservati questi scritti e questi disegni. Sono
documenti che parlano delle violenze subite dal punto di vista dei
bambini coinvolti in questa tragedia. Anche se le disposizioni del
bando recitavano «che bisognava esimersi dal patetico», gli scritti e
i disegni conservano una non comune forza espressiva. La commissione
che valutò gli scritti premiò tutti gli autori in blocco senza
prendere in considerazione gli errori di ortografia o di sintassi.
Bogomir Gerlanc, che aveva raccolto gli scritti migliori, li definì
«dei piccoli monumenti dedicati ai patimenti e alle sofferenze
subiti»[24].

In questo senso vorrei riproporre alcune riflessioni del maestro
Bogomir Gerlanc, che tanto ha fatto per far uscire le piccole vittime
dal trauma dei campi e ad inserirle nella vita quotidiana:

- siano questi scritti un documento del loro passato e delle
sofferenze patite

- siano d'aiuto alla pedagogia ed alla sociologia nello scoprire
l'animo della gioventù in condizioni estreme di sopravvivenza

- siano un documento d'accusa della bestialità umana

- siano una pagina incancellabile della sofferenza nel tempo che corre
inesorabile[25].

Nel campo della salvaguardia degli adolescenti in tempo di guerra, la
resistenza slovena aveva dato prova di una grande capacità
organizzativa già dal 1941 in poi. Si era pensato già allora di
organizzare un sistema di copertura illegale per i membri più giovani
delle famiglie impegnate nella resistenza. I figli di coloro che si
erano dedicati completamente alla lotta di liberazione venivano
affidati a famiglie che si occuparono di loro per tutta la durata
della guerra. Chi finiva in carcere o in campo di concentramento, o
veniva incluso nelle formazioni armate partigiane poteva contare su un
vasto reticolo di famiglie che avevano il compito di badare ai loro
figli. Per questa generazione di 200 - 300 bambini si adoperò già
allora il nome di «ilegalcki», cioè di bambini nati e vissuti nell'
illegalità. Come supporto logistico venne affiancata a questa rete di
famiglie l'organizzazione del Soccorso nazionale sloveno, erede del
Soccorso rosso, organizzato dai comunisti tra le due guerre.
Soprattutto nelle grandi città il Soccorso nazionale sloveno formò nel
1942 delle sezioni che dovevano andare in aiuto a tutti i giovani in
pericolo, pensare a procurare loro documenti falsi, aiutarli in caso
di malattia, vestirli, sfamarli, nasconderli, ecc.. Dall'estate del
1942 fino alla fine della guerra, ad organizzare questa rete furono
Ana Ziherl e Ada Krivic. A guerra finita Ana Ziherl scrisse le memorie
dell'avventurosa vicenda della resistenza slovena e consegnò inoltre
all'Archivio di Stato tutta la documentazione del movimento. Per
organizzare questa attività la Ziherl si serviva di quattro aiutanti,
che coprivano uno dei quattro settori di questa organizzazione
illegale, il cosiddetto settore bambini. Il gruppo poteva usufrire di
una serie di magazzini illegali, dove venivano conservati i mezzi
necessari per far fronte a questo impegno. Il settore bambini
provvedeva anche ai bisogni quotidiani delle donne e dei loro figli
rinchiusi nelle carceri ed arrivò a dar vita a delle dimostrazioni per
proteggere le famiglie rinchiuse o destinate ai campi di
concentramento. La prima dimostrazione si svolse nella primavera del
1943 davanti alla sede dell'Alto Commissario Grazioli e la seconda
nell'estate dello stesso anno davanti alla sede arcivescovile. Dopo le
grandi retate del 1942, Lubiana restò praticamente senza uomini abili
per la lotta clandestina. Allora furono le donne a prendere il loro
posto ricoprendo tutti i ruoli di maggiore responsabilità nella
resistenza slovena[26].

Come si è detto, la recrudescenza della guerra fece sì che Lubiana
fosse circondata da un filo spinato lungo 34 chilometri con posti di
blocco, bunker e fortezze, con postazioni di mitragliatrici pesanti.
L'organizzazione del Soccorso nazionale, alla quale si rivolgeva un
numero sempre maggiore persone, decise che per superare questa crisi
si sarebbe dovuto aumentare il numero delle famiglie incaricate della
protezione e che alcuni dei bambini avrebbero dovuto prendere la via
dei territori liberati. Secondo le testimonianze e gli studi condotti
sulla base di documentazione archivistica si può dedurre che per
aiutare i bambini nell'illegalità fosse stata messa in piedi una rete
di 300 famiglie lubianesi che non fu mai scoperta né dalle forze
fasciste né dai nazisti né dai collaborazionisti. A formare questa
organizzazione erano persone di estrazione sociale diversa, persone
sole o famiglie intere, anziani, medici, contadini, artigiani nubili e
sposati. Dagli studi risulta che tra tutti questi bambini vissuti
nell' illegalità per più di quattro anni a morire sia stata soltanto
una bambina. Ma la morte di una persona non può rendere l'idea delle
conseguenze patite da tutti questi bambini sui quali hanno pesato le
assenze dei genitori, la paura delle retate diurne e notturne, il
vivere constantemente nell'illegalità per due, tre o quattro anni.
Questa generazione, provata dalla guerra forse in un modo diverso, ha
dovuto affrontare i propri traumi ripercorrendo nella memoria la
tragedia di una gioventù violata[27].

Una storia tipica di questo periodo è la storia di Tatjana Dovc. Sua
madre, che fu sindacalista e membro del partito comunista, partorì la
bambina nell'agosto del 1941 nel reparto di maternità dell'ospedale di
Lubiana. Con l'aiuto del Soccorso nazionale sloveno riuscì ad
eclissarsi, mentre la bambina fu «rubata» da una attivista e fatta
uscire dall'ospedale dentro una comune sporta per la spesa. La mamma,
Angela Ocepek Dovc, ricercata dalle forze dell'ordine, cambiò in
quattro mesi ben 15 nascondigli riuscendo a salvarsi e a salvare la
bambina. Più tardi si divisero e la bambina cambiò residenza ancora 20
volte[28].

Come appare chiaramente dal materiale consultato e presentato in
questo studio, sul tema dei bambini sloveni in tempo di guerra le
fonti d'archivio primarie e secondarie sono ricche e numerose. Questi
documenti si trovano soprattutto nella Sezione II dell'Archivio di
Stato della Republica di Slovenia. La Sezione II trae le sue origini
dall'archivio dell'Istituto per la storia del movimento operaio (oggi
Istituto di storia contemporanea) che venne fondato nel 1959 come
un'istituzione complessa, formata da un reparto di ricercatori e da un
reparto che copriva i fondi d'archivio riguardanti la resistenza
slovena. Questo archivio venne completato più tardi con fondi
originali provenienti del funzionamento in loco delle istituzioni
delle forze d'occupazione della Slovenia, sia di quelle italiane che
di quelle tedesche (440 m.c.) e dall'archivio delle forze
collaborazioniste. Esiste inoltre una sezione del primo dopoguerra
(1945-47), costituita soprattutto dalla documentazione inerente alle
questioni di definizione dei confini (la questione di Trieste) fino
alla conferenza della pace di Parigi e da una vasta documentazione
sull' Adriatisches Kuestenland. Ai fondi d´archivio si accompagna un
vasto repertorio di memorie e testimonianze, archivi personali di
politici in vista, una vasta collezione di carte geografiche e di
cartelli e bandi pubblici.

L'archivio legato alla resistenza slovena veniva a costituirsi man
mano che l'amministrazione partigiana cresceva e si sviluppava. Nelle
zone libere funzionò dall'inizio del 1944 in poi un Istituto di
ricerca, diretto da Fran Zwitter, che dispose che tutti gli organi di
ogni grado e di ogni livello conservassero e archiviassero la
documentazione pubblica, civile e militare, interna ed estera. Il
governo partigiano sloveno (SNOS) promulgò nel gennaio del 1945 una
legge di tutela per gli archivi, le biblioteche, i monumenti artistici
e naturali (Gazzetta ufficiale NOS). La Sezione II dell'Archivio di
Stato della Republica di Slovenia è il diretto continuatore di questo
lavoro e con i suoi 1.300 metri consecutivi di materiale archivistico
costituisce uno dei più importanti e ricchi archivi sulla resistenza
e sulle guerre di liberazione in Europa e nel mondo. Il materiale in
questione può essere molto interessante sia per i ricercatori di
lingua italiana che per quelli di lingua tedesca, perché conserva i
materiali originali di queste due amministrazioni sul territorio sloveno.


Note archivistiche utili ai ricercatori

La Sezione II dell'Archivio di Stato della Repubblica di Slovenia
propone agli interessati questo elenco di fondi e di collezioni (tutte
disponibili al sito metka.gombac@g...) che
raccolgono documenti sulla condizione dei bambini sloveni durante la
guerra:

1. AS 1769, Zbirka okupatorjevi zapori in taborisca, sk. 1 (Collezione
prigioni e campi di concentramneto delle forze d' occupazione,
scatola 1.)

2. AS 1872, Zbirka dopolnilnega gradiva o delavskem gibanju in NOB,
1918 - 1945. (Collezione del materiale integrativo sul movimento
operaio e la resistenza 1918 - 1945)

3. AS 1840, Zbirka gradiva o zrtvah italijanskih okpacijskih oblasti
(Collezione del materiale concernente le vittime dell' occupazione
italiana)

4. AS 1953 Zbirka Slovenke v narodnoosvobodilnem boju. (Collezione
donne slovene nella resistenza 1941 - 45)

5. AS 1775, Poveljstvo XI armadnega zbora. (Comando dell XI Corpo
d'Armata)

6. AS 1788, Visoki komisar za Ljubljansko pokrajino (Alto Commissario
per la Provincia di Lubiana)

7. AS 1796, Kraljeva kvestura Ljubljana 1941 - 43. (Regia Questura di
Lubiana).

8. AS 1781, Poveljstvo grupe kraljevih karabinjerjev Ljubljana.
(Comando del gruppo Carabinieri reali di Lubiana)

9. AS 1752, Slovenski rdeci kriz v Ljubljani. (Organizzazione della
croce rossa slovena di Lubiana)

10.AS 1822, Stab za repatrijacijo vojnih ujetnikov in intzernirancev
Ljubljana (Commando per il rimpatrio dei prigionieri e degli internati
Lubiana)

11. AS 1627, Pooblascenec drzavnega komisarja za utrjevanje nemstva
na spodnjem Stajerskem (Plenipotenziario del commissario statale per
il rafforzamento della lingua e cultura tedesca nello Stayer del sud)

12. AS 1800, Glavni odbor Antifasisticne fronte zena. (Comitato
direttivo dell' Associazione donne antifasciste slovene)

13. AS 1670, Izvrsni odbor OF. (Comitato direttivo del Fronte di
Liberazione)

14. AS1828, Komisija za ugotavljanje zlocinov okupatorjev in njihovih
pomagacev pri predsedstvu SNOS. (Commissione per l' accertamento e la
verifica dei delitti degli occupatori e dei collaborazionisti)

15. AS 1790, Okrajno glavarstvo Crnomelj. (Amministrazione
distrettuale di Crnomelj)

16. AS 1602, Dezelni svetnik okrozja Celje 1941-43. (Consigliere
delegato della circoscrizione di Celje 1941-43).

17. AS 1791, Vojasko vojno sodisce II armade, sekcija Ljubljana
1941-43. (Tribunale militare di guerra della II Armata, Sezione di
Lubiana)


_____

[1] Teodoro Sala, Fascisti e nazisti nell'Europa sudorientale. Il caso
croato (1941-43), in Enzo Collotti - Teodoro Sala, Le potenze
dell'asse e la Jugoslavia. Saggi e documenti 1941-1943, Milano,
Feltrinelli, 1974, p. 69.

[2] Tone Ferenc, "Gospod visoki komisar pravi...". Sosvet za
ljubljansko pokrajino. Ljubljana, 2001, p. 6 ss.

[3] Metod Mikuz, Pregled zgodovine NOB. 1. knjiga, pp. 215-230,
Ljubljana, 1960.

[4] Boris M. Gombac, Dario Mattiussi (a cura di), La deportazione dei
civili sloveni e croati nei campi di concentramneto italiani: 1942-43.
I campi del confine orientale, Gorizia, Centro Gasparini, 2004, pp.
115-123.

[5] Herman Janez, Koncentracijsko taborisce Kampor - Rab, Ljubljana,
1996, pp. 2-10.

[6] Boris M. Gombac, Intervista a Herman Janez, sopravissuto ai campi
di concentramento di Rab-Arbe e Gonars, in Boris M. Gombac - Dario
Mattiussi (a cura di), La deportazione dei civili sloveni e croati,
cit., pp. 41-48.

[7] AS 1769, Zbirka okupatorjevi zapori in taborisca, sk. 1.

[8] Bozidar Jezernik, Italijanska koncentracijska taborisca za
Slovence med drugo svetovno vojno. Ljubljana, 1997, pp. 288 - 289.

[9] Dario Mattiussi, Una tragedia dietro al cortile di casa. La
deportazione nei campi di concentramneto italiani del confine
orientale (1942-43), in Metka e Boris M. Gombac - Dario Mattiussi,
Quando morì mio padre. Disegni e testimonianze di bambini dai campi di
concentramento del confine orientale, Gorizia, Centro Gasparini, 2004,
p. 47.

[10] Boris M. Gombac, Intervista a Herman Janez, cit. , pp. 43-45.

[11] Tone Ferenc, Rab - Arbe - Arbissima, Ljubljana, 2000, pp. 20-21.

[12] Intervista a Marija Poje di Podpreska, Slovenia.

[13] AS 1769, Zbirka okupatorjevi zapori in taborisca, sk. 1.

[14] AS 1769, Zbirka okupatorjevi zapori in taborisca, sk. 1, Gerlanc
Bogomil, Nas otrok v internaciji.

[15] Herman Janez, Testimonianza pubblicata in «Delo», Sobotna
priloga, Ljubliana, 2.7.2005, p. 31.

[16] Kumar Stane, Risal sem otroke v koncentracijskem taboriscu,
Otrostvo v senci vojnih dni, Ljubljana, 1980, pp. 144-148.

[17] AS 1769, Zbirka okupatorjevi zapori in taborisca, sk. 1.

[18] AS 1769, Zbirka okupatorjevi zapori in taborisca, sk. 1.

[19] AS 1769, Zbirka okupatorjevi zapori in taborisca, sk. 1.

[20] Tone Ferenc, Rab-Arbe-Arbissima, cit., p. 30.

[21] AS 1769, Zbirka okupatorjevi zapori in taborisca, sk. 1.

[22] Tone Ferenc, Rab-Arbe-Arbissima, cit., pp. 33-34.

[23] Slavica Pavlic, Narodnoosvobodilna vojska in organizacija
solstva. Otrostvo v senci vojnih dni, Ljubljana, 1980, pp. 90-115;
Joze Princic, Odnos ljudske oblasti slovenskega naroda do otroka v
obdobju NOB (1944-1945), Otrostvo v senci vojnih dni, Ljubljana,1980.

[24] AS 1769, Zbirka okupatorjevi zapori in taborisca, sk. 1, Bogomil
Gerlanc, Nas otrok v internaciji, Ljubljana ,1980.

[25] AS 1769, Zbirka okupatorjevi zapori in taborisca, sk. 1.

[26] Ada Krivic, Skrb za ogrozene druzine otrok v Ljubljani, Otrostvo
v senci vojnih dni. Ljubljana, 1980, pp. 26-37.

[27] Ada Krivic, Skrb za ogrozene druzine otrok v Ljubljani. Otrostvo
v senci vojnih dni, Ljubljana, 1980, pp. 20-39; AS 1871, Zbirka
dopolnilnega gradiva o delavskem gibanju in o NOB, 1918-1945.

[28] AS 1871, Zbirka dopolnilnega gradiva delavskega gibanja in NOB
1918-1945, MO OF Ljubljana.









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IL 18 MARZO 2006 A ROMA
CONTRO LE GUERRE E CONTRO LE OCCUPAZIONI MILITARI

http://www.cnj.it/INIZIATIVE/fse180306.htm

ed anche per ricordare il settimo anniversario della
AGGRESSIONE DELLA NATO CONTRO LA REP. FED. DI JUGOSLAVIA

http://www.cnj.it/24MARZO99/index.htm

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Prilozi koje vam saljemo ne odrazavaju uvek nas zvanicni stav,
niti nase jedinstveno misljenje, vec svojim sadrzajem
predstavljaju korisnu informaciju i potstrek na razmisljanje.

25 marzo 2006

USA: 30mila a Milwaukee contro la riforma dell'immigrazione, domani grande marcia a L.A.

ANSA (EST) - 24/03/2006 - 18.55.00IMMIGRAZIONE:USA; MARCIA 30.000 A MILWAUKEE, PROTESTE A L.A.
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ZCZC0533/SXB YWS51845 R EST S0B ST3 S91 QBXB IMMIGRAZIONE:USA; MARCIA 30.000 A MILWAUKEE, PROTESTE A L.A. MANIFESTAZIONI PRECEDONO DIBATTITO SENATO SU NUOVE LEGGI (ANSA) - WASHINGTON, 24 MAR - Crescono le manifestazioni di protesta negli Usa in vista del dibattito, la settimana prossima in Congresso, sulla riforma delle leggi sull'immigrazione. Circa 30.000 immigrati hanno marciato nelle strade di Milwaukee, in Wisconsin, nel corso di una giornata di sciopero dei lavoratori illegali. A Los Angeles gli studenti di varie scuole con alta percentuale di immigrati hanno interrotto le lezioni e sono usciti in strada, per dar vita a manifestazioni spontanee. E' l'assaggio di eventi di protesta piu' ampi previsti nel fine settimane e nei primi giorni della prossima. Domani a Los Angeles e' in programma una manifestazione di protesta degli immigrati alla quale gli organizzatori contano di portare mezzo milione di persone. Migliaia di manifestanti sono attesi lunedi' di fronte al Campidoglio, a Washington, per un'altra manifestazione I cui promotori sostengono di ispirarsi alle parole dell'arcivescovo di Los Angeles, cardinale Roger Mahony, che ha chiesto ai propri parroci di opporsi a eventuali, future leggi che rendano un reato l'assistenza a immigrati clandestini. (ANSA). BM 24-MAR-06 18:51 NNN

22 marzo 2006

Su Milosevic

Ricevo e inoltro..
Gigi

Milosevic : 7 questioni imbarazzanti

Di Michel Collon
12 marzo 2006

(traduzione di Curzio Bettio di Soccorso Popolare di Padova)

Perché si continuerà a nascondervi quel che segue.

Che egli muoia !
« Sarebbe meglio se Milosevic morisse in cella, perché se il processo
Seguisse il suo corso, potrebbe essere condannato solo per delle
Accuse di poca rilevanza. »
JAMES GOW, « esperto in crimini di guerra » e fautore del Tribunale
Dell'Aja, intervistato a Channel 4, 2004.
http://www.csotan.org/textes/texte.php?art_id=180&type=TPI

KUSTURICA
« Sono una vittima di una guerra di propaganda », canta Emir
Kusturica, il celebre cineasta nato a Sarajevo, con il suo gruppo
Rock. Il suo film La vie est un miracle (La vita è un miracolo)
Ridicolizza I media occidentali sulla Bosnia. Ma nelle sue interviste,
Ha fatto ben comprendere che gli era impossibile dire la verità.

PINTER
Harold Pinter, Premio Nobel per la Letteratura 2005 :
« La Corte NATO-USA che giudica Slobodan Milosevic è sempre stata
Totalmente illegittima. Impossibile considerarla come un tribunale
Serio. La difesa di Milosevic è potente, convincente ed irrefutabile.»
Perché I media non hanno mai riportato il contenuto delle udienze di
Questo processo?

CRIMINI SERBI
« Quando Milosevic è stato messo al corrente dei crimini commessi dai
Riservisti della polizia, associati alla milizia di Slobodan Medic
`Boca', si è infuriato. Ha domandato come era potuto succedere che la
Milizia degli Scorpioni aveva potuto essere attiva in Kosovo, e ha
Preteso che I colpevoli fossero perseguiti e che questo non succedesse
più.»
Generale Farkas, capo dei servizi di sicurezza dell'Esercito Jugoslavo
Nel 1999, testimonianza resa al Tribunale dell'Aja.

MITTERRAND - SARAJEVO
« Il Signor Boutros Ghali mi ha informato qualche giorno fa che il
Proiettile che ha colpito il mercato di Markale a Sarajevo era un atto
Provocatorio dei Musulmani di Bosnia.»
http://www.fantompowa.net/Flame/bosnia_sarajevo.htm

BIN LADEN DA IZETBEGOVIC
« Nel novembre 1994, mi trovavo con un collega di Spiegel,
Nell'anticamera dell'ufficio del presidente di Bosnia, Izetbegovic.
Abbiamo visto Osama bin Laden scortato all'interno dell'ufficio di
Izetbegovic."
Eve-Ann Prentice, giornalista del Guardian e del Times, specialista
Dei Balcani. Il giudice Robinson ha immediatamente soppresso questa
Testimonianza, dichiarandola "irrilevante".
http://www.slobodan-milosevic.org/

PIANO « FERRO DI CAVALLO » :
Scharping, ministro tedesco della Guerra, 1999 "(Noi temevamo) un
Cedimento del sostegno dei media, foriero di un ritorno dell'opinione
Pubblica favorevole all'arresto della campagna di bombardamenti della
NATO e alla ripresa dei negoziati. Une catastrofe che il mio collega
Joshka Fischer voleva ad ogni costo evitare."
É il momento di annunciare una notizia sensazionale : il ministro
Scharping, dopo qualche giorno, disponeva della prova scritta che
Milosevic aveva programmato per la primavera un crimine contro
l'umanità in Kosovo di grandi dimensioni, giustificando a posteriori
L'intervento preventivo della Bundeswehr (l'Esercito Tedesco). «
Finalmente, abbiamo la prova che dal dicembre 1998 era stata
Programmata una pulizia etnica sistematica e l'espulsione dei Kosovari
Albanesi, una prova dettagliata e che specifica tutte le unità
Jugoslave che vi dovevano partecipare. L'analisi mette in rilievo una
Immagine raccapricciante chiarissima. Ho deciso che questo piano
"Ferro di Cavallo" sia reso di pubblico dominio.».

Due anni più tardi, l'8 febbraio 2001, la catena ARD diffonderà un
Documentario esclusivo: « All'inizio fu la menzogna ». Quella sera, un
Milione di telespettatori tedeschi sbalorditi, appresero quello che un
Piccolo numero di persone ben informate già sapevano : non era mai
Esistito un piano serbo "Ferro di Cavallo" e che I massacri erano
Stati inventati di sana pianta. I telespettatori intesero inoltre l'ex
Portavoce della NATO durante la guerra, il britannico Jamie Shea,
Indirizzare un vibrante (ma fortemente compromettente) omaggio
All'eminente contributo dei dirigenti tedeschi: « Non solamente il
Ministro Scharping, ma anche il cancelliere Schröder e il ministro
Fischer sono stati un esempio grandioso di leaders politici che non si
Allineano sull'opinione pubblica, ma hanno la capacità di
Condizionarla. Malgrado gli incresciosi danni collaterali e nonostante
La durata dei bombardamenti, loro hanno saputo mantenere la bussola.
Se noi avessimo perduto il sostegno dell'opinione pubblica tedesca,
Avremmo perso anche quello dei paesi alleati.»

++++++++++

Ecco qualche esempio, fra I tanti altri, di mediamenzogne! Certamente
Sono stati commessi crimini da entrambe le parti in questa guerra. Ci
Sono cose da rimproverare a Milosevic. Ma, nello stesso tempo, le cose
Importanti non sono certamente quelle raccontate dai media.
Soprattutto importante è tutto ciò che non dicono.
Se voi ritenete che I mezzi di comunicazione di massa vi abbiano
Indotto qualche volta in errore sull'Iraq, su Israele, sul Vietnam e
Su qualche altro conflitto, ma che per la Jugoslavia abbiano fatto
Un'eccezione, e che in questo caso vi sia stato detto tutto senza
Alcuna manipolazione, allora non cercate più, e dormiteci sopra!
Al contrario, se voi avete riscontrato che qualsiasi conflitto delle
grandi potenze è sempre stato accompagnato da propaganda di guerra e
da disinformazione, allora cercate di conoscere quello che vi è stato
nascosto, Provate a farvi una vostra opinione senza tabù.

Michel Collon

Sul mio sito http://www.michelcollon.info , utilizzando il motore di
ricerca, troverete numerosi fatti che vi sono stati nascosti

LIBRI E FILMS

-Poker menteur, Les grandes puissances, la Yougoslavie et les
prochaines guerres. (Mentitori a Poker; le grandi potenze, la
Jugoslavia e le guerre a venire.)
Beninteso, sono stato censurato e calunniato per aver dimostrato che i
media su questa guerra ci hanno manipolato. Ma Paul-Marie de la Gorce,
che è sato cronista al Monde Diplomatique e uno dei migliori
conoscitori delle strategie segrete degli USA nei Balcani, aveva
giudicato questo libro uno dei tre migliori dell'anno 1998. Nel
contempo, Gilles Perrault, Jean Ziegler, Samir Amin e molti altri
hanno salutato queste ricerche. Ma tutto questo è stato fatto sparire
dai media a senso unico.
Info : nessa.kovic @ skynet.be

- Monopoly – L'Otan à la conquête du monde. (Monopoli – la NATO alla
conquista del mondo)
Info : nessa.kovic @ skynet.be

- Les Damnés du Kosovo (I dannati del Kosovo)
Questo film documentario mostra la situazione catastrofica di tutte le
minoranze nazionali, oggi sotto l'occupazione della NATO. E la
gigantesca base militare costruita dagli Stati Uniti sul tracciato del
futuro oleodotto USA. Disponibile ora anche in DVD.
Info : nessa.kovic @ skynet.be

- Sous les bombes de l'Otan – 15 Belges en Yougoslavie (Sotto le bombe
della NATO – 15 Belgi in Jugoslavia).
Documentario sui crimini della NATO, che ha bombardato obiettivi
civili e numerose strutture produttive, nei fatti una privatizzazione
attraverso le bombe.

16 marzo 2006

In morte di Slobo

In morte di Slobodan Milosevic, nell’anniversario del crimine Nato
14 marzo 2006

Ho tra le mie foto più preziose, sopra il televisore, una con Slobodan Milosevic. Siamo a casa sua, la residenza di Stato del presidente della Jugoslavia, ormai "Piccola Jugoslavia", sulla collina di Dedinje in vista del Danubio ed è il 27 marzo 2001. Fuori dalla villa, amici e militanti del Partito Socialista contengono una piccola folla che sbraita contro colui che ormai è l’ex-presidente, destituito più che da un voto manomesso fino a bruciarne le schede, dal pogrom di un’organizzazione finto-nonviolenta e paramilitare, "Otpor", finanziata ed addestrata dalla Cia e dal brigante della speculazione finanziaria e del narcotraffico George Soros. Tre giorni più tardi queste bande e I loro padrini internazionali l’avranno vinta. Milosevic verrà arrestato e, qualche mese dopo, consegnato per 30 milioni di dollari, trenta denari, agli sgherri di un tribunale-farsa istituito all’Aja dal governo Usa con la firma del notaio Kofi Annan ed affidato a fiduciari, rinnegati dell’ordine giudiziario, come le "procuratrici" Louise Harbour e Carla Del Ponte. Lo venderà ai suoi mandanti il capomafia e Primo Ministro Zoran Djindjic, colui che aveva consegnato ai bombardieri della Jugoslavia le mappe con gli obiettivi da colpire: raffinerie, industrie, ponti, ferrovie, ma soprattutto case, scuole, ospedali, gente: 10.000 vittime per 78 giorni di intervento umanitario contro una totalmente inventata "pulizia etnica" in Kosovo. Con sulla torre di controllo, in primissima fila, Massimo D’Alema (Non pago del bagno di sangue jugoslavo, rilancia ancora oggi: "E’ giusto espandere la democrazia anche con la forza").

Guardo quella foto mentre, sotto, lo schermo tv è percorso da immagini falso-vere di una logora propaganda umanitaria e percosso dall’eloquio nevroticamente sincopato, di una corifea di tutti gli "interventi umanitari", Giovanna Botteri del Tg3. Una che ricordiamo stracciarsi le vesti e annunciare macelli, possibilmente di bambini sventrati e di turbe in stracci messe a fuoco, che si trattasse della Jugoslavia, o dell’Iraq, con pari dedizione saprofita. Segue un'altra stampella delle ragioni per l’ "intervento umanitario", Ennio Remondino, che, ricordando un gabbamondo da tavolino con le tre carte, con supponenza elargisce e mescola "il despota Milosevic", "il presidente democratico Djindjic", I cattivi bombardamenti Nato e I cattivissimi nazionalisti serbi. Intanto mi premono sullo stomaco, forse un po’ come quell’ultimo pasto avvelenato rifilato a Milosevic per stroncarne l’esito vittorioso sugli avvoltoi del tribunale-postribolo, la parole tossiche, passate e presenti, di altri eroi del cerchiobottismo, becchini della Jugoslavia e della verità che, con piagnistei equamente distribuiti tra carnefici e vittime, sono stati anche più efficienti nell’apparecchiare la sepoltura di un nobile paese. Il dolore per la morte da assassinio di quest’ uomo, senza retorica figura da tragedia greca, si mescola con rabbia, indignazione, ripugnanza e ne viene quasi temperato.Non mi riferisco alla grande stampa della borghesia, dall’Unità a Libero, da Ferrara a Mieli. Fetecchie da "macellaio dei Balcani", o "Hitlerosevic". Chissenefrega, quelle sono le voci del padrone, fanno il loro mestiere di ruffiani.. La loro dimensione è la menzogna strutturale, ontologica, in sintonia con il potere che servono e, sempre più spesso, sono. Nella nostra guerra stanno con ogni evidenza dall’altra parte della trincea. Non c’è scandalo. La collera e il disprezzo sono tutti per coloro che, dicendosi a sinistra, per la pace e per gli oppressi, pretendono di elargirci verità e che, facendo slittare sotto la commiserazione per le vittime (purchè inermi e non-violente) I paradigmi dei carnefici, strategicamente questi puntellano e agevolano.

Guardo la foto e la memoria srotola il filo della storia di un avvicinamento a Slobo che parte dal 24 marzo e termina pochi istanti dopo lo scatto di quell’immagine. Dopo aver sbranato oltre metà della Jugoslavia, in parte anche grazie alla collaborazione di "pacifisti" come Adriano Sofri, Alex Langer, Costruttori di pace, settori cattolici, ongisti voraci e semplicemente fessi, fondata sull’assenso agli inganni della guerra psicologica, nella notte tra 23 e 24 marzo le classi dirigenti europee e nordamericana si apprestano alla soluzione finale. La mattina del 24 marzo, a garanzia delle retrovie, insieme alla Nato entra in guerra il Tg3, il canale "di sinistra", cosiddetto Telekabul, ma anche, a buon titolo, Telepapa (fin da quando un papa ultrareazionario e guerresco aveva sobillato I neofascisti – ma cattolicissimi – croati contro la federazione ancora ostinatamente socialista). La donna-cannone è Botteri, il direttore del circo è Ennio Chiodi, democristosinistro. Ci si dice, in riunione di redazione, da che parte stare, ci si accalora sul "dittatore", su "pulizia etnica", "ondate di profughi" e dunque, appunto, sull’ "intervento umanitario".Tutti annuiscono, il tavolo della riunione pare un carillon. Armiamoci e partite. Da quel giorno non ho più messo piede in RAI, al Tg3. Di decente c’erano rimasti solo gli operatori e I montatori, anche perché, bravi per conto loro, non devono il pane a nessuna ruffianeria. E pochi giorni dopo partii, con la prima delegazione dalla parte degli aggrediti e tanto di telecamerina, per Belgrado, quella delle macerie, della morte, della fame, della sfida-sfottò dei "target" sui ponti. Si doveva passare da Austria e Ungheria, farsi taglieggiare dai rispettivi doganieri, scendere sotto le bombe per la Voyvodina a Novi Sad. Gli sgherri razzisti di Tudjman, cari al papa, non permettevano il passaggio. Chi frequentava i serbi era infetto per l’Occidente intero. Ci accompagna e assiste un piccolo partito comunista. Attraversiamo l’inferno, la resistenza, la quinta colonna (che la "dittatura" lasciava agire e ci aveva permesso di incontrare apertamente in piena Belgrado), fino al geno-ecocidio programmato di Pancevo e di Zastava. I serbi non si piegavano e non c’è momento più alto nella vicenda europea dopo la liberazione partigiana – quella che tedeschi e statunitensi riuniti intendevano vendicare – che quella, fortunosamente ripresa dai miei documentari, delle legioni di uomini e di donne, veri combattenti con l’arma nucleare della dignità, che sul Ponte Branco di Belgrado, sera dopo sera, facevano svettare bandiere jugoslave, cartelli "target" sul cuore, canti di orgoglio, incriminazione e resistenza, contro gli strumenti tonitruanti degli stragisti Clinton, Schroeder e il chierichetto col botto D’Alema.

A Novi Sad i ponti erano stati sbriciolati, la raffineria s’inceneriva nell’uranio, la terra si scuoteva per terremoti da bombardamenti. A Belgrado il cielo si apriva ai terminator con la chimica della guerra meteorologica. Una volta, a Kragujevac tre missili ci mancarono di 80 metri. Mi è rimasta impressa la temeraria calma del compagno di viaggio, Raniero La Valle. Una notte scampammo alla sorte dei neonati a cui le bombe avevano spento le incubatrici, fuggendo dall’albergo e dai pressi dell’ambasciata cinese in fiamme, con dentro tre morti, mentre D’Alema e compari ammazzavano, nel nome della libertà di stampa, 16 giornalisti e tecnici della televisione serba (mai annoverati tra le sue vittime dall’associazione mercenaria Reporters Sans Frontieres). A Pancevo, la città della chimica e del petrolio, D’Alema e sodali avevano fatto in modo che le nubi e i liquidi tossici, sprigionati dai loro esercizi di sfoltimento dell’umanità, da aria, terra e acque pervadessero, fino a corromperli, vita e futuro di generazioni. A Kragujevac, la più grande industria dei Balcani era un ammasso uranizzato di macerie e di storia operaia. Ma c’erano ancora, dopo i missili e nell’uranio, gli scudi umani che avevano sfidato, inanellati attorno agli stabilimenti, la foja assassina degli umanitari. Ci avrebbero messo appena un anno a rimettere in piedi gran parte della fabbrica. Non solo quella. Tornammo un anno e mezzo dopo: due ponti di Novi Sad erano risorti, la Zastava era tornata a far correre due linee di montaggio. Nell’inedia e nel gelo delle sanzioni, tra le macerie delle loro case (ma migliaia erano già state ricostruite), con i corpi ancora caldi delle vittime sezionate dalle bombe a grappolo a Nis e in tanti altri posti, con il sangue avvelenato dalla guerra chimica, i serbi erano rivissuti per orgoglio e per vendetta. Nessuno pensava alla resa. "Serbi da morire!" titolai il documentario.

Sotto il controllo di un presunto "dittatore", alla faccia degli infiltrati, dei demonizzatori, di morte e rovina, dei governanti avversi che le libere elezioni del "despota" avevano installato nelle maggiori città del paese, nonostante il sabotaggio al servizio del nemico di una stampa al 90% in mano all’opposizione filo-imperialista, la Jugoslavia di Slobodan Milosevic aveva retto e si stava aggiustando addosso i vestiti laceri.. A scandalo di una sinistra italiana miseramente subalterna, avevo potuto scrivere su un giornale serbo "Meglio serbi che servi". Quella "sinistra" preferiva fraternizzare con i sedicenti oppositori "democratici" di Radio B-92, della televisione di Vuk Draskovic (oggi ministro agli ordini di Solana), "Studio B", entrambi del circuito europeo Cia di "Radio Liberty", entrambi foraggiati da George Soros, con un’alleanza civica assetata di libero mercato, garantita da pretoriani Nato, chiamata "Zayedno" Ma, soprattutto, si era gemellata con l’altra articolazione Cia, il mix sottoproletari-fichi dei quartieri alti di "Otpor", appena reduce da corsi di eversione tenutigli a Budapest e a Sofia da generali Usa. Eversione "non-violenta" fino al rovesciamento del governo legittimo, ma violentissima dopo, nell’occupazione delle istituzioni, nell’epurazione a bastonate e omicidi di sindacalisti, politici di sinistra, giornalisti onesti, maestranze non vendute. Quando questa coalizione del cialtroname opportunista e rinnegato colmò la piazza di Belgrado e poi invase il parlamento per bruciare le schede che avevano dato, nel settembre 2000, la vittoria alle sinistre, i miei reportage dal campo venivano cestinati dal redattore capo di Liberazione, Salvatore Cannavò. Cestinò anche le mie interviste ai capi di Otpor che esibivano grande fierezza per essere i fiduciari "dell’intelligence di una grande paese come l’America" e dichiaravano di auspicare l’avvento di una "democrazia all’americana" in cui una "manodopera a basso costo serba avrebbe fatto la fortuna delle multinazionali americane" e la si sarebbe fatta finita con la "demagogia della garanzia del lavoro, della sanità e dell’istruzione gratuite e per tutti". Il compagno trotzkista Cannavò fu invece svelto a invitare "i compagni di Otpor" agli appuntamenti no-global.

Tornai ancora a Belgrado, quando tutto era davvero finito. I serbi, la Jugoslavia, l’Europa, la pace, la verità avevano perso. Si poteva espandere a macchia di vetriolo, senza più oppositori, l’infame inganno di una "pulizia etnica" nel Kosovo, con la quale si volle giustificare la fuga di povere popolazioni dai bombardamenti Nato e l’espulsione di 300.000 serbi innocenti ad opera degli ascari Nato e stragisti narcotrafficanti dell’UCK. Disintegrata la trincea jugoslava, smembrata una nazione democratica, progressista, antimperialista nei suoi segmenti etnici e confessionali, creata la piattaforma per la penetrazioni, bellica o con le "rivoluzioni colorate" tipo Otpor, verso Est, verso gli idrocarburi del Caucaso e l’oppio afgano, rinchiuso nel braccio della morte dell’Aja e nel cappio della diffamazione uno dei più onesti ed equilibrati uomini di Stato del nostro tempo, la strada era stata aperta per il terrorismo imperialista globale e permanente. A mio avviso, soprattutto misurando la vicenda jugoslava contro quella irachena, dove una Resistenza di popolo saggiamente predisposta dalla sua dirigenza, ha bloccato l’avanzata dei mostri, a Slobodan Milosevic possono essere imputati solo due errori. Aveva resistito all’infame ricatto di Rambouillet e quel gesto di forza e di dignità aveva mobilitato il suo popolo alla resistenza. Le due rese successive di Dayton nel 1995 e di Kumanovo nel 1999, seppure motivate dall’impegno, questo sì umanitario, a salvaguardare la sopravvivenza di genti che avevano sofferto l’indicibile da un ventennale ostracismo internazionale, dalle sanzioni e dalle guerre. Possiamo immaginare, alla luce della vittoriosa guerra di popolo irachena, cosa sarebbe successo nella Serbia della cacciata di sua propria mano della Wehrmacht, se il rifiuto della Pace di Kumanovo avesse costretto i mercenari della Nato a misurarsi con un esercito di popolo pratico di ogni anfratto della sua terra e collaudato dal confronto con l’allora più potente esercito d’Europa. Certo sangue, lacrime, sacrifici inenarrabili, ma probabilmente l’avanzata del carnefice planetario sarebbe stata arrestata prima della trincea irachena. Quale governo europeo avrebbe potuto sostenere il peso di centinaia di suoi giovani militari caduti in un’operazione che si sarebbe evidenziata via via più criminale?

L’ultima mia Serbia l’ho vista qualche tempo dopo, a trauma collettivo subito, a futuro oscurato. Con il difensore di un popolo che aveva saputo imporre la sua agenda ai grandi, venduto e martirizzato in un paese lontano, sembra che si sia dissolta ogni capacità di reazione. Al vertice, coperte da un personaggio da incolore mezza stagione, Kostunica, si avvicendavano bande di malfattori e rinnegati. Era estate, ma neanche la stagione sorrideva a questo "volgo disperso che nome non ha". Le strade di Belgrado, di Pancevo, di Kragujevac, di Nis, su cui ancora incombevano scheletri di corpi urbani che nessuno più faceva rivivere. Gli anfratti suburbani in cui era stato ammassato il milione di senza terra, senza casa, senzapatria. Passanti infreddoliti che sembrano perdersi in un vuoto poststorico, come nella polvere volteggiano prive di senso cartacce che un tempo erano alimenti, libri, manifesti, lettere. Ricordo il mio ultimo saluto, dall’autobus, a una protagonista della forza che aveva fatto rinascere la Zastava, una comunista, figlia di partigiano.Il suo sguardo mi riportava a quello di un vecchio palestinese davanti alla fotografia del suo villaggio perduto. Un generoso lavoro di resistenza di compagni, riuniti nel Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia, in pochi altri momenti di militanza, come "SOS Jugoslavia" e l’associazione di Trieste, e di pochi serbi della diaspora, per anni uniche voci di contrasto alla menzogna, di solidarietà, ha dovuto ridursi a inascoltata denuncia di disgrazie epigonali, ai possibili interventi, questi sì, umanitari, a ricordi. E, in perfetta solitudine, a una minoritarissima mobilitazione in difesa di Milosevic e della verità sullo pseudoprocesso dell’Aja. Solitudine di cui possiamo ringraziare, oltrechè un pubblico offuscato dall’inquinamento mediatico di destra, di centrosinistra e di "sinistra", anche la timidezza con la quale i personaggi di riferimento dell’area antagonista hanno risposto al martellamento demonizzatore. Quasi che corressero qualche inaccettabile rischio di carriera a compromettersi con la verità. Personalmente ho potuto misurare la distanza che correva tra la percezione nella base di sinistra su chi erano i buoni e chi i cattivi nei Balcani, e la prudente riservatezza, i distinguo a mezza bocca, dei leader del movimento. C’è rimasta, nel desolante silenzio di voci balcaniche, la denuncia e il sostegno dell’unica bandiera all’apparenza non ammainata: Slobodan Milosevic, presidente della Jugoslavia, incarcerato all’Aja e ora ammazzato oberandone il cuore malato di prove insostenibili, poi avvelenandolo. Non si poteva tollerare che continuasse a sbugiardare i suoi boia, a vincere ogni confronto e quindi a validare la sacrosanta richiesta di risarcimenti del suo popolo. Tanto meno lasciargli tempi di ripresa accettando la richiesta di un breve periodo di cura a Mosca, dove, peraltro, medici non al guinzaglio della Del Ponte avrebbero potuto scoprire la terapia assassina. Dove Slobo avrebbe potuto parlare con giornalisti non velinari e compromettere ulteriormente il gioco. Leggere gli atti del processo per credere.

Leggere, invece, quanto ha scritto sull’evento l’unico quotidiano italiano ancora "diverso" , "il manifesto". Messo in salvo un po’ di coscienza con la condanna dell’intervento Nato, ecco che si rilanciano e si riabilitano, contro ogni evidenza storica nel frattempo disponibile a chiunque, tutti gli stereotipi della gigantesca truffa. Si esonerano i mandanti della morte di Slobo, ormai inchiodati da elementi inesorabili, parlando sprezzantemente di "milioni di teorie e complotti a cavallo di fantapolitica e storie di spionaggio di altri tempi"; si parte definendo il difensore dell’unità jugoslava, l’unico dei personaggi di quella stagione né quisling, né chauvinista, "uno dei protagonisti della mattanza balcanica". Si parla, riferendosi al famoso discorso di Kosovo Polje del 1989, in cui, pur garantendo ai serbi del Kosovo protezione dai pogrom albanesi sollecitati dai cospiratori imperialisti, Slobo s’impegnò come nessun altro leader delle provincie a salvaguardare i pari diritti di tutte le popolazioni jugoslave, come del lancio di una grande e ipernazionalistica Serbia, avallando l’alibi dell’aggressione che sarebbe partita da lì a poco. Cerchiobottismo, si direbbe, che da anni ci rifila una specie di avallo ex post alla menzogna della pulizia etnica serba, ora diventata addirittura "campagna di terrore verso gli albanesi", secondo quanto dettavano Giovanna Botteri e l’infiltrato radicale Antonio Russo che sparava cazzate granguignolesche di matrice Nato da un finto nascondiglio a Pristina.. L’avallo viene con quel "contropuliza etnica" con cui l’autore si ostina a definire le stragi degli ultimi serbi del Kosovo e che pareggerebbe implicitamente un qualche conto. Stesso avallo viene ripetutamente offerto, a scorno di tutte le documentate smentite, all’altra delle grandi truffe che, dagli attentati al mercato di Sarajevo in giù, hanno giustificato la distruzione della Jugoslavia: la "strage di Sebrenica". Le bande Otpor, che certamente si erano trascinate dietro disillusi e illusi della sofferenza serba, oltre alle milizie armate del sindaco nazista di Cacak , diventano per Tommaso Di Francesco "la folla scesa in piazza a Belgrado per ottenere il riconoscimento della vittoria alle presidenziali di Vojslav Kostunica". Sul discorso di Kosovo Polje, che non deve aver mai letto per intero, nella sua appassionata perorazione del pluralismo e delle pari dignità, ecco che viene riesumata la bugia del lancio di una "Grande Serbia", che avrebbe tolto al Kosovo l’autonomia garantitagli da Tito. Possibile che un esperto giornalista non sappia come l’unica cosa che Belgrado tolse al Kosovo, già in pieno pogrom antiserbo ed antijugoslavo per conto dell’imperialismo, era l’assurdo e paralizzante diritto di veto sul legiferare delle altre repubbliche e della federazione intera? L’autonomia restò intatta, per quanto emissari di Washington, come Soros e madre Teresa di Calcutta, già vi stavano costruendo uno Stato parallelo, albanese, etnicamente pulito, eminentemente un narcostato al servizio della finanza occidentale. Con il concorso di un collega, anche lui da tramandare agli onori dei negazionisti della verità (non ci sono solo quelli dell’olocausto), il giornalista ripercorre proprio tutte le tappe dell’intossicazione: "estremismo nazionalistico che ispirava il suo regime", "gestione di un paese solo apparentemente democratico" (dove pur si votava con una frequenza quasi maniacale tra repubbliche, federazione, amministrazioni locali, dove le grandi città venivano conquistate dall’opposizione e dove, in piena guerra, si andava e si veniva come Pisanu si sognerebbe di lasciar fare), fino alle infamanti "collusione con le organizzazioni illegali". Già quelle che avrebbero contribuito a formare il famoso "tesoro di Milosevic", mai trovato, mai esistito, al punto che perfino i suoi detrattori hanno dovuto ammettere che Milosevic aveva come unico cespite il suo stipendio. Non basta a riscattare tanta aderenza al diktat propagandistico degli aggressori, il finalino con cui si mette in dubbio la credibilità giuridica di un tribunale dell’Aja, creato dal vincitore e la cui procuratrice ha respinto ogni addebito che milioni di cittadini colpiti avevano rivolto alla Nato dei 78 giorni di crimini di guerra. Sai, caro collega, una volta che ti sei piegato all’assunto principale, pulizia etnica, Sebrenica, regime autoritario, mafia, le tue sparate contro la guerra etnico-imperialista hanno la forza di una pistolettata ad acqua. Almeno i Disobbedienti, allora Tute Bianche, di Padova, una volta fatta la megacazzata di andare, in piena guerra, a Belgrado e, ospitati dalla Tv di Stato, di sbraitare contro il governo serbo aggredito e fraternizzare con forze d’opposizione dichiaratamente filoamericane, oggi se ne stanno zitti. Il gemellaggio con la radio Cia B-92, fatta allora passare per "radio di movimento", gli deve ancora bruciare. Ma dubito che bruci a una Wilma Mazza di Radio Sherwood il ricordo di come i suoi picchiatori si fossero avventati, il 6 giugno ad Aviano, manifestazione contro la guerra, su coloro che alzavano bandiere jugoslave, li avessero colpiti e ne avessero stracciato i vessilli.

Sotto la foto di Slobo ora scorrono sullo schermo immagini di gente che porta fiori ai suoi ritratti. "E tu onor di pianti Ettore avrai, ove fia sacro e lacrimato il sangue per la patria versato…" Donne, uomini, vecchi e giovani serbi. Gente qualunque. Sono tanti, sempre di più. Mi ricordano un mesto e forte corteo di contadini e operai, di ex-partigiani e donne, in una ricorrenza lontana della morte di Tito. Furono aggrediti e sprangati da giovinastri scesi da Radio B-92. Vecchi operai coperti di sangue…"e finchè il sole risplenderà sulle sciagure umane".

Era un rigido autunno di qualche anno fa. I soliti pochi, non ligi, non vili, ancora una volta con un’inadeguata ma fedelissima rappresentanza serba, ci riunimmo davanti alla prigione-fortezza di Scheveningen. Ci dissero che di là, oltre il fossato e alle muraglie di bugnato, il carcerato poteva udirci. Centocinquanta combattenti contro la menzogna si misero a lanciare messaggi d’affetto urlando:"Slobo-Slobo"! Fino a quando energumeni olandesi in nere uniformi non c’imposero di tacere. Guai a trasmettere ulteriore coraggio, quello che ti viene quando scampi all’abbandono, a chi già aveva svergognato uno dopo l’altro i suoi accusatori mercenari, aveva costretto alla ritirata testimoni tanto grotteschi quanto istruiti per la bisogna. Pur di impedire che l’accusa al presidente jugoslavo gli franasse addosso, ai giudici e ai governanti Nato, facendo riemergere i mai considerati crimini Nato e lo spettro delle riparazioni dovute al popolo serbo, il tribunale dell’Aja, il giudice Meron e la pseudoprocuratrice Del Ponte (che chiamava la signora degli eccidi, Madeleine Albright, "madre del tribunale") abbandonarono ogni parvenza di legalità, di etica giudiziaria e di umanità nei confronti del detenuto. Contro la sua volontà e contro il diritto gli imposero avvocati d’ufficio con i quali ci si rifiuta di parlare, di cui i tuoi testimoni non si possono fidare, che non ti riferiscono fatti rilevanti e che, con un conflitto d’interesse di fronte al quale impallidisce anche quello del malvivente nostrano, erano stati scelti tra i tuoi giudici! Nessuna autorità del diritto internazionale ha avuto mai da obiettare contro aberrazioni come queste, come la detenzione per cinque anni di un uomo affetto da ipertensione gravissima, l’imposizione di ritmi di udienza da stroncare un rinoceronte, l’espansione illimitata degli spazi e testimoni d’accusa e la riduzione a pochissimo di quelli della difesa (non per nulla Slobodan è stato fatto morire prima che fosse costretto a testimoniare il da lui citato criminale di guerra Bill Clinton, seguito poi dai succedanei D’Alema, Blair, Chirac e affini), la negazione di terapie richieste e l’obbligo a quelle non volute. Milosevic, nel silenzio del sistema legale e di quello mediatico, fu rinchiuso in una vergine di Norimberga giudiziaria. Cionondimeno riusciva, passo dopo passo, a far emergere il vero volto, euro-americano, delle guerre balcaniche, dei massacri, delle pulizie etniche. Bisognava fermarlo. Lo si è fermato quando già aveva vinto e il Tribunale dell’Aja per i crimini di guerra in Jugoslavia era a tutti gli effetti destinato nella discarica della storia.

Nelle ore prima di quella foto sul televisore, Slobo mi aveva raccontato un gran pezzo della vita sua e del suo paese. Un discorso la cui architettura erano fatti, date, citazioni. Ne uscivano i protagonisti della vicenda nelle dimensioni e con i profili che la storia conferma e confermerà: le ipocrisie dei negoziatori alleati e i trucchi di Rambouillet, le mille diffamazioni di una sistema imperialista che, essendo gestito da criminali, si era convertito in coacervo di Stati criminali, l’utilizzo di mafie e quinte colonne contro il governo democratico, l’ininterrotto uso dei termini "dittatore" e "despota", le bugie sui famigliari: Mira Markovic che diventa "Lady Macbeth", secondo un’iconografia classica degli stregoni della guerra psicologica, la stessa delle varie "Lady Antrace" o "Lady Veleno" irachene; la piccola boutique del figlio Marko che diventa la satrapica catena di negozi di un puttaniere che, in pieno bombardamento, si permette addirittura di costruire un parco giochi per bambini, magari per attenuare il trauma delle atrocità Nato…Ma anche il racconto della propria vicenda come barriera contro la spinta verso l’abisso di qualcosa che andava ben oltre la Jugoslavia. Slobo aveva parlato con voce piana, senza alterarsi, con qualche virata verso l’ironia, con qualche momento accorato. Poi la foto e ci siamo salutati, noi con la sensazione fredda di un qualcosa di terribilmente inesorabile, lui certo con la stessa consapevolezza, ma senza aggravarci dandocelo ad intendere. Curiosamente, tra i tagli di luce che dagli alberi neri piovevano sul viale, come fossimo davanti al banco di un "Tre palle un soldo", mi sfilavano nella mente le facce dei politici che accompagnano la stagione del nostro sconforto: pagliacci, imbonitori, trucidi, idioti, perversi, voraci, ottusi, volgari, osceni. Milosevic, alle nostre spalle nell’arco del portico, ci salutava con la mano. Strana inversione : noi partivamo, ma restavamo; lui era fermo lì, ma capimmo che sapeva di essere lui ad andar via a lungo.

Quell’intervista, oggettivamente storica, la portai all’allora mio giornale, "Liberazione", quello di Bertinotti. L’omologa del capo, Rina Gagliardi, la rifiutò con la seguente motivazione, di chiaro tenore democratico e professionale: "Mica ci possiamo appiattire sulle posizioni di un Milosevic!". E già, "il macellaio dei Balcani"… Passai l’intervista a gratis al maggiore quotidiano italiano, "Corriere della Sera", che ovviamente la pubblicò. A proposito di ignavia. Ne hanno espresso uno tsunami i capi e capetti del movimento, sia quelli che si erano squali-ficati a Sarajevo, cattopacifisti, sindacalisti, disobbedienti imbroglioni o imbrogliati, missionari, ambiguoni ed infiltrati travestiti da non-violenti, sia gli antimperialisti. Antimperialisti finchè si vuole, ma rettificare le infamie su Milosevic e schierarsi dalla parte di questo autentico combattente antimperialista, beh, sarebbe imbarazzante, magari pericoloso. Ne avete ascoltato in questi giorni il silenzio da sordomuti?

Slobo, pochi giorni prima, aveva detto ad amici che non si sarebbe arreso a nessuno, se non alla morte. Ha mantenuto la sua promessa e, come aveva denunciato gli assassini del suo paese e gli iniziatori di una guerra globale contro l’umanità, prima di essere ucciso aveva additato i suoi boia e i loro fini. Ma che la morte lo abbia sconfitto è tanto poco vero quanto lo fu nel caso del Che. Gli ignavi di allora furono confusi, i bugiardi smascherati, i vili svergognati, i criminali puniti, o quanto meno condannati dagli uomini. Così sarà, a tempo debito. Qualche serbo c’è ancora. Rispondendo alla domanda in televisione su cosa pensasse di Slobodan Milosevic, il calciatore Sinisa Mihailovic, quello del "target" sotto la maglia, ha detto ieri, senza un filo di esitazione e con decisione irrevocabile, "E’ il mio presidente!"

Vorrei poter dire la stessa cosa anch’io. La dico.

Fulvio Grimaldi

14 marzo 2006

Inoltra: proiezione film

Ho appena ricevuto dall'università la conferma definitiva della proiezione del Leone del deserto a Venezia, il 30 di marzo. Fate girare il più possibile la notizia. Anche se molti non verranno credo sia "strategico" dimostrare la nostra collaborazione con l'università...
A presto
Gigi

-------Messaggio originale-------

In allegato un'iniziativa del Master sull'Immigrazione e del Corso di
laurea specialistica in Interculturalità e cittadinanza sociale - Università
Ca' Foscari di Venezia.

09 marzo 2006

Accade nel mondo...

Soldato USA si suicida davanti ai bambini di Fallujah



A US broken down and deeply depressed US soldier has gone beyond the unthinkable and made the ultimate move shooting himself in front of a group of a primary school children near the city of Falluja.

Palestine primary school head master in the Al Karma Falluja neighborhood confirmed that a US homesick soldier has directed his personal rifle against his temple committing a suicide in public.

The headmaster added that the US nostalgic soldier was normally talking to the primary school kids got from his pocket a wallet with the photos of his children and wife smiled and then had his eyes flowing with tears and started to cry and scream: "Where are my children! Where is Michael..!" All of a sudden, said the Palestine school head master, the US soldier asked the children to move away and bullets hitting his skull were heard killing him at once.

:: Article nr. 21339 sent on 09-mar-2006 01:52 ECT


:: The address of this page is : http://www.uruknet.info?p=21339

:: The incoming address of this article is :

http://www.al-moharer.net/mohhtm/f_badrane240e.htm

Conferenza sull'Iraq

Carissimi, vi segnalo una conferenza che si terrà all'Auditorium della biblioteca di Montebelluna sabato 18 marzo, alle ore 16.30. Il tema sarà: Baghdad, I luoghi della cultura in tempo di guerra e saranno presenti alcune nostre conoscenze (De Bortoli e Prevedello) oltre che a un rappresentante di "Un ponte per" e di un'altra struttura culturale irachena. Da come sono impostate le cose già mi viene la pelle d'oca ma io ci andrei lo stesso. Voglio proprio sentire come faranno a spiegare il ruolo italiano, che posizione prenderanno di fronte alla guerra tutta e soprattutto come anteporranno manoscritti e bassorilievi alle vite umane! Fatemi sapere se vi va di venire.
Gigi

03 marzo 2006

Filamto rainews uranio impoverito

Carissimi, vi invio il link della pagina dove potrete trovare l'ultimo filmato di rainews che è dedicato al tema dell'uranio impoverito: http://www.rainews24.rai.it/ran24/inchieste/UI_2006.asp
Fate girare questa notizia perchè è importante che si sappia cosa stiamo facendo in giro per il mondo e nel contempo cosa facciamo a noi stessi.. Un'avvertenza però, prima di vederlo sarebbe consigliabile l'assunzione di antiemetici.
Questo video, infine, si basa per buona parte su un documentario giapponese ma in lingua inglese (con pezzi in italiano), per certi versi migliore, che potrete invece trovare qui: www.osservatoriomilitare.it Io proporrei di tentarne la traduzione, ma attendo una consulenza tecnica da Luca.
A presto

Gigi

02 marzo 2006

Preparazione cineforum

Alla allegra brigata del Kinomètisse,

In preparazione al prossimo cineforum sul colonialismo italiano vi segnalo una conferenza che si terrà a Giavera il 10 marzo sulle "prodezze" compiute dall'imperialismo italico in Slovenia e Croazia. Il tema della serata è il seguente: "La bonifica etnica del confine orientale durante il fascismo" e sarà tenuta da Marta Verginella. Non ho mai sentito questa relatrice ma è una docente di Lubiana e il titolo sembra di buon auspicio. Io cercherò di esserci. Per correttezza vi segnalo anche le altre serate dello stesso ciclo di incontri: il 3 "Ritratto di una regione di frontiera" e il 17 "La catastrofe dell'italianità adriatica".
Ah, vi prego di passare questa mail anche ad Alessandra dato che non la trovo.

Un abbraccio
Gigi