28 aprile 2006

Gli effetti della democrazia borghese in Iraq

Due righe sulla "liberazione" della donna irachena da parte dell'Occidente,
A presto

Gigi & Rossi

-------Messaggio originale-------

Data: 04/28/06 10:52:07
Oggetto: [wilhelm_wolff] Iraqi women forced into sexual slavery since war


http://www.hindustantimes.com/news/181_1682078,00050004.htm

Iraqi women forced into sexual slavery since war

Agence France-Presse

Washington, April 24, 2006


More than 2,000 Iraqi women thought to have been forced into sexual slavery have gone missing since the 2003 overthrow of Saddam Hussein, a women's group told Time magazine.
The Organisation for Women's Freedom in Iraq, based in Baghdad, based its figure on anecdotal evidence and the magazine said no one knew the true figure because of the country's troubles.
The issue of Time that goes on sale on Monday quoted a Western official in Baghdad, who monitors the status of women in Iraq, as saying that the figure may be inflated while admitting that sex trafficking has become a "serious issue".
A US State Department report on human trafficking released in June 2005 said that an unknown number of Iraqi women and girls had been sent to Yemen, Syria, Jordan and Gulf countries for sexual exploitation.

21 aprile 2006

Il Nepal

http://smart.tin.it/rancinis/nonepal.html

Inoltra: Rif: richiesta film "Il leone del deserto"

Carissimi, per correttezza vi giro la mia risposta al Sig. Raphael d'Abdon che ci ha proposto la proiezione de "il leone del deserto" a Udine.
Un abbraccio a tutte e tutti
Gigi

-------Messaggio originale-------

Data: 04/21/06 10:37:58
Oggetto: Rif: richiesta film "Il leone del deserto",

Gentile Raphael d'Abdon,

A nome dell'ass. Kinomètisse accetto volentieri la sua proposta. Saremo felici di partecipare alla manifestazione "Udine Solidale" con la presentazione e la proiezione del film "Il leone del deserto" di Mustapha Akkad. Il film è in formato DVD adeguatamente modificato per contenere I sottotitoli in italiano. Data questa particolarità solamente alcuni lettori DVD ne permettono una buona visione. Per questi motivi siamo soliti portare di persona anche il lettore per evitare spiacevoli sorprese all'ultimo minuto. Non esiste inoltre alcuna prassi per ottenere il film. Noi abbiamo semplicemente comprato il film all'estero (in Korea) dato la sua mancata distribuzione in Italia e in seguito ne abbiamo creato I sottotitoli in italiano. Il risultato è una copia senza fini di lucro dell'originale adeguatamente modificata per supportare I nuovi sottotitoli. Detto questo mi permetto, infine, di precisare due piccoli punti. Uno: la nostra associazione non distribuisce il suddetto film dato che esso non può essere distribuito in Italia. Due: non dirigo l'associazione Kinomètisse che fino ad ora ha sempre preso le proprie decisioni collettivamente.

Spero di ricevere presto sue nuove.
Un saluto sincero

Luigi Di Noia

-------Messaggio originale-------

Data: 04/20/06 09:34:30
Oggetto: richiesta film "Il leone del deserto",

Gentile Luigi Di Noia,

mi chiamo raphael d'abdon e sono un ricercatore dell'Università di Udine.
Le scrivo in qualità di membro del comitato organizzativo della manifestazione "Udine Solidale". US avrà luogo a Udine dal 23 al 25 giugno ed è una festa di musica, appuntamenti culturali, riflessioni, dibattiti e raccolta fondi, giunta oramai alla terza edizione ed organizzato da associazioni, partiti ed enti locali assieme a e per le comunità di immigrati della città.
Venendo al dunque, le scrivo perchè il 24 giugno (sabato) vorremmo inserire nella programma la visione del film "Il leone del deserto", distribuito dall'associazione Kinometisse, da Lei diretta. In effetti il Suo indirizzo di posta elettronica mi è stato gentilmente girato dal Prof. Pietro Basso, che ha recentemente proiettato il film durante i corsi del Master sull'Immigrazione.
Se la nostra richiesta dovesse essere accolta, Le chiedo cortesemente sia di comunicarmi quali sono i formati video disponili (noi disporremo solamente di supporto dvd o vhs) sia di farmi sapere qual'è la prassi da seguire per la richiesta del film.
Le ricordo che qualora Kinometisse accettasse la nostra proposta, il nome dell'associazione verrà inserito tra i vari enti promotori e/o sostenitori di US nel materiale divulgativo dell'evento (poster, volantini, ecc.).

In attesa di un suo cordiale riscontro La saluto cordialmente,
raphael d'abdon


“È quindi di un’immagine nuova dei migranti che abbiamo bisogno.
Un’immagine dei migranti che evidentemente […]
non deve concedere nulla ad un’apologia
meramente estetizzante dell’esperienza migratoria.”

Sandro Mezzadra

"Mi chiedo perché i banchieri hanno problemi cardiaci al momento
dell'arresto e gli extracomunitari mai..."

Stefano Benni

08 aprile 2006

Bella analisi sulle lotte francesi contro il CPE

Carissimi vi invio questo pezzo prodotto dai compagni del c.f.
A presto
Gigi


Sul movimento di lotta in Francia

1. Da circa un mese la Francia intera, dalla sempreviva Parigi alle sonnolenti province, è scossa da un moto di protesta che ha coinvolto centinaia di migliaia di studenti universitari e liceali e ha raccolto –il 28 marzo e prima- la solidarietà attiva di centinaia di migliaia di lavoratori. E’ un moto di protesta imponente, e finora in continua ascesa, che può trovarsi tra breve, però, dinanzi al suo momento della verità, se il governo de Villepin non ritirerà il CPE, la miccia che ha acceso la lotta. Solidali con esso senza se e senza ma, senza accettare cioè in alcun modo la distinzione tra I manifestanti buoni perché educati e legalitari e I casseurs, cioè I più marginali, cattivi da abbandonare alla propria sorte (bastonate e carcere in stile Sarkozy), proviamo qui a ragionare molto schematicamente sul suo significato, sulle sue radici e sulle sue prospettive, cioè sulle nostre stesse prospettive, poiché le “questioni” sollevate da questo moto di protesta sono di carattere generale.

2. Questo amplissimo movimento di lotta ha catalizzato e portato in piazza il malessere delle nuove generazioni francesi d.o.c. Poche settimane dopo l’esplosione nelle banlieues delle nuove generazioni francesi di secondo rango, tali solo “sui documenti” in quanto composte da figli di immigrati. Questo minuscolo dato di fatto ed il carattere eminentemente spontaneo di entrambi I movimenti fanno piazza pulita della predizione centrale di tutta la letteratura sociologica d’accatto secondo cui l’“era della flessibilità”, individualizzando I rapporti di lavoro, avrebbe fatto deperire per sempre la “vecchia” lotta di classe collettiva. Si può toccare con mano, al contrario, quanto fosse radicata nella reale dinamica delle trasformazioni sociali, e per nulla auto-consolatoria, la (nostra) previsione inversa: la generalizzazione della crescente precarietà del lavoro salariato, vera sostanza di classe della “flessibilità”, non potrà che rovesciarsi, prima o poi, nel suo contrario, nella generalizzazione della lotta contro la precarietà.

E lotta è. Nella forma ancora una volta, a smentita delle geremiadi foucaultiane, dell’azione diretta, dell’azione collettiva, della auto-attività e della auto-organizzazione di massa, dello “sciopero” prolungato (per quanto un tale termine possa addirsi alla protesta studentesca), dell’agitazione di piazza. Gli innumerevoli mugugni e timori individuali, privati, e perciò gravati da un senso di impotenza, contro l’incremento senza fine della precarietà e contro la “mancanza di futuro” si sono fusi e trasformati di colpo in una sola, comune reazione, in una sola efficace iniziativa comune che ha ridestato in una massa di giovani la coscienza di quanto è insopportabile il “destino” che li attende (e di cui hanno iniziato a fare esperienza) e, insieme, di quanta forza può esserci –e c’è!- nella lotta di massa realmente partecipata, di quanta e quale capacità d’azione sia contenuta e compressa nella prolungata passivizzazione della “gente comune”, ove scocchi la scintilla giusta al momento “opportuno”.

3. Tale è il significato (non contingente) della attuale protesta francese. Essa è interamente concentrata –sta in ciò la sua forza, e però anche la sua debolezza- sul rifiuto del CPE. Il CPE è il contratto approvato il 9 marzo dal parlamento francese (voilà un ennesimo saggio di cosa sono I parlamenti…) che attribuisce alle imprese di ogni grandezza, non solo a quelle minori che già lo hanno, il potere di licenziare liberamente nei primi due anni del contratto di lavoro I propri dipendenti giovani (fino a 26 anni o, secondo un’altra interpretazione, fino a 28). Non è la prima protesta del genere in Europa: la manifestazione CGIL del 28 marzo 2002 a Roma in difesa dell’art. 18 dello Statuto dei diritti dei lavoratori aveva questo medesimo contenuto. La differenza sta nel fatto che oggi l’epicentro della protesta, in Francia, non è nel proletariato industriale, bensì in un mondo giovanile studentesco trasversale a più classi e, se vogliamo, appartenente in maggioranza alle classi medie. E, forse, nella più acuta percezione che in gioco non è soltanto l’istituzionalizzazione della precarietà nei rapporti di lavoro, ma la precarietà dell’esistenza come destino di vita per un’intera generazione. Génération precarie, génération jetable…Finora il tentativo di de Villepin di dire alla gioventù più istruita e meno marginale: “attenti, non si tratta di voi, bensì dei figli dei proletari, a cui vogliamo dare col CPE una buona opportunità”, non è riuscito. Anche la parte meno deprivata della gioventù francese comincia a sentirsi tirata nel vortice della “parificazione” delle “opportunità” al ribasso.
E di questo effettivamente si tratta. Il turbo-capitalismo mondializzato sta polarizzando senza posa anche le società occidentali, erodendo reddito e status delle classi medie impiegatizie (e di frange non proprio insignificanti delle stesse classi medie accumulative) nella misura in cui non può più esentarle dall’applicazione serrata delle leggi della concorrenza da cui negli anni delle vacche grasse le aveva tenute al riparo. Questo processo si è verificato dapprima negli Stati Uniti, ed ora tocca all’Europa. Non si tratta, evidentemente, della scomparsa dei ceti medi, ma della proletarizzazione di una loro bella quota. E’ il prodotto (inatteso) anche di quella terza rivoluzione industriale imperniata sull’elettronica, che ha semplificato e deprezzato non poche mansioni lavorative a contenuto un tempo “intellettuale” e qualificato, consentendo tra l’altro un loro più agevole trasferimento nei paesi “di colore”. Sui giornali francesi si è letto di un sentimento da nobiltà declassata presente tra i giovani in piazza, e la corrispondente de “il manifesto” se ne è doluta un po’: le piazze piene, ha notato, sono tuttavia cupe, poco gioiose, a differenza che nel ’68…

4. Infatti: non c’è molto da ridere. Da anni, il materialissimo spettro della precarietà, prima di inquietare i sogni dei piccoli borghesi, ha riempito di incertezza e di pene la vita di milioni di proletari, giovani e meno giovani. La riproduzione allargata del capitale alla scala mondiale si va facendo sempre più stentata e gravida di contraddizioni; e nella sua manìa di abbattere i costi di produzione, sempre più gravida di costi per la natura e l’umanità lavoratrice. Non ultimo, tra tali costi, è la cronicizzazione di un tasso di disoccupazione o di occupazione precaria molto elevato. La produzione di una ingente massa di donne e di uomini in soprannumero, superflui, da gettare nella spazzatura ha investito per primi, nel modo più devastante, i paesi dei continenti di colore: tanto il loro mondo contadino flagellato dai debiti, dagli stenti della povertà estrema e dalle malattie, quanto le loro metropoli con le sterminate bidonville pullulanti di emigranti in cerca di sopravvivenza. Ma nella misura in cui l’unificazione del mercato mondiale, ed in esso del mercato del lavoro mondiale, è divenuta, pur con tutte le sue complicazioni gerarchiche, sempre più compiuta ed effettuale, la tendenza ad un livellamento verso il basso del tasso di sfruttamento differenziale del lavoro salariato ha colpito anche in Occidente provocando anche nel centro dell’Europa, una stabile (e cioè slegata dal ciclo economico) precarizzazione della forza-lavoro, in specie giovanile. Nel plebiscitario “no” francese alla costituzione europea vi era l’illusione di potersi tenere fuori dagli effetti della piena mondializzazione della concorrenza capitalistica in corso, di allontanare da sé l’amaro calice del “modello anglo-sassone”. Senonché passati pochi mesi, le implacabili ragioni del capitale internazionale sono tornate a presentarsi sotto forma di una nuova legge sul lavoro francesissima, per giunta peggiorativa della stessa normativa media europea. Un altro addio alla (presunta) “eccezione francese”, dopo quello strisciante alle 35 ore.
I dati di fatto potentemente evidenziati dal movimento di lotta sono a tal punto univoci che pure i massimi specialisti nel camuffamento degli antagonismi sociali fanno fatica a nascondersi dietro il dito. Uno di loro, il sociologo R. Castel, ha descritto nel modo seguente lo stato delle cose:
“Sul piano del mercato del lavoro la situazione è effettivamente grave [e non solo in Francia –n.]. Lo sviluppo del capitalismo attuale non è capace di assicurare la piena occupazione, crea ricchezze ma non la piena occupazione, a differenza di quello che ha fatto il capitalismo industriale del secondo dopoguerra. Allora era possibile arrivare a un compromesso, con la promozione sociale, il diritto del lavoro. Ho parlato nei miei lavori delle persone in soprannumero, degli inutili al mondo. Mi sembra che oggi sia purtroppo sempre più vero. Si diffonde la consapevolezza che c’è gente che non ha posto sul mercato del lavoro, è in soprannumero, ma al tempo stesso tutti devono essere al lavoro, sono esigenze contraddittorie. La destra dice: il solo modo di uscirne è ridefinire cosa è il lavoro, chiamare occupazione forme di lavoro che sono al di qua del lavoro. La sinistra non ha la risposta…” (intervista a il manifesto, 31 marzo).
Verissimo. C’è una contraddizione sempre più stridente tra l’assoluta necessità di trovare lavoro per vivere o sopravvivere, o anche soltanto per continuare a studiare, necessità esaltata dai tagli al welfare state, e la crescente difficoltà a trovare un lavoro salariato che “assicuri” un minimo di stabilità e una remunerazione che non sia al di sotto della media. Ma da cosa dipende tutto ciò? perché è andata per sempre in archivio anche la mera promessa della “piena occupazione” (non parliamo della sua realtà, perché non è mai esistita davvero)? e perché sono venuti meno i vecchi margini di compromesso sociale mentre la “ricchezza globale” prodotta dal capitalismo continua comunque a crescere? Le risposte della scienza ufficiale sono penosamente empiriche o sfuggenti perché non sanno, o non possono, puntare il dito sulla causa di fondo di un tale processo: lo stridente antagonismo tra le forze produttive mondiali in grandissima crescita (per l’incremento della popolazione, per la massa di donne disposte a lavorare fuori dalle mura domestiche, per i livelli raggiunti dalla produttività del lavoro, per l’ulteriore perfezionamento dei mezzi tecnici della produzione, etc.) e i rapporti produttivi capitalistici che li comandano, capaci solo di usare tale sovrabbondanza per abbattere, anche attraverso l’arma di ricatto di uno sterminato esercito di riserva del lavoro, il valore del lavoro vivo onde far ripartire a razzo una produzione di profitti sempre più intralciata dello stesso “iper-sviluppo” capitalistico. La soluzione razionale di tale contrasto di fondo che assume sempre più tratti e dimensioni epocali sarebbe semplice: abbattere il tempo di lavoro di tutti i salariati fregandosene altamente di innalzare i costi di produzione dei beni, anzi, mirando proprio a questo: al miglioramento generalizzato delle condizioni di esistenza di chi lavora, sia con la riduzione della fatica che con l’aumento del tempo disponibile al di là del lavoro. Ma una simile razionalità sociale, preconizzata dal comunismo di Marx, è pura follìa per i capitalisti, e dunque è assolutamente vietato anche solo parlarne, perfino in quella Francia, e perfino da quella sinistra francese, che così a lungo si è pavoneggiata di essere all’avanguardia in materia di riduzione (di un nulla!) degli orari di lavoro.

5. Per quanto si sia qua e là fatta (o tentata) l’analogia con il ’68, il ’68 non c’entra. Non siamo nel mezzo (o alla conclusione) di un ciclo di grande sviluppo. Non ci sono veri margini di redistribuzione dei redditi. Non ci sono processi di mobilità ascendente in atto, né classi operaie candidate all’ingresso in “paradiso”. E non c’è neppure una sinistra disposta a cavalcare la protesta per ottenere “vere riforme di struttura”. Anzi. Il movimento, questo movimento che pure si mantiene entro le regole democratiche, si trova ad essere sostanzialmente privo di una sua “rappresentanza” politica. I socialisti e quel che resta del PCF non sono andati oltre le punture di spillo parlamentari nei confronti del governo di destra. I sindacati si sono rifiutati di dare un carattere realmente generale e militante agli scioperi di solidarietà, catalogando lo sciopero generale richiesto da qualche settore degli studenti come un atto insurrezionale, e perciò da aborrire. E proprio sul ruolo da collaudati pompieri delle direzioni sindacali punta il governo per svuotare lentamente dal suo interno il movimento di lotta o, almeno, per isolarlo nell’ambiente scolastico e lasciarlo esaurire lì dentro.
La protesta del marzo francese ha toccato un punto nevralgico del capitalismo d’oggi: la precarizzazione, la svalorizzazione della forza-lavoro, tanto manuale che “intellettuale”, ed è per questa ragione, non prioritariamente per i calcoli elettoralistici di cui invece si ciancia fino alla nausea, che lo scontro è reale e le possibilità di un compromesso sociale “storico”, duraturo, sono piuttosto ridotte.

6. Nella competizione mondiale l’Europa, e la Francia in essa, arrancano. Non possono perdere altro terreno sia nei confronti del capo-branco a stellestrisce che nei riguardi delle nuove nazioni industriali emergenti dell’Asia. L’euro non ha mantenuto le sue promesse, e quanto più ciascuno dei paesi-membri dell’Unione ha ripreso a marciare per proprio conto come prima, se non più di prima, tanto più urge per ognuno di essi rafforzare i fattori differenziali positivi di competitività (è per questo che il “pacifista” Chirac è arrivato ad esternare la minaccia di uso dell’atomica di fronte ad Africa e Medio Oriente e impegna sempre più attivamente le sue truppe all’estero) e ridurre, per contro, i gap.
In questa corsa sfrenata al profitto i traguardi di redditività da raggiungere sono mobili, si spostano di continuo in avanti. La Francia ha già un grado di flessibilità molto alto, anche nel lavoro dei giovani (tanto per dirne una, vi si contano la bellezza di 800.000 stage di lavoro vero e proprio non pagati… -uscirà in aprile da La Decouverte un libro di testimonianze a riguardo intitolato Sois stage et tais-toi, curato dall’Associazione Génération precaire). Per il 75% dei giovani che si sono affacciati al mercato del lavoro nel 2001 il primo impiego è stato a tempo determinato, il tasso di disoccupazione a tre anni dal diploma è in crescita, mentre la differenza tra il salario medio di chi ha meno di trent’anni e quello di chi ne ha più di cinquanta è del 40% ed il tasso di risparmio degli under-30 è crollato dal 18% al 9% in soli cinque anni… Eppure tutto ciò non basta. Nel campo della flessibilità del lavoro giovanile la Francia è, in Europa, seconda solo a Spagna e Grecia, ma deve fare di “meglio” perché lo stesso primato in Europa è ancora poca cosa quando la competizione mondiale stringe.
Di tutto ciò il governo francese è ben consapevole, e pare attrezzato alla bisogna. Non intende cedere alla “piazza”. Non si danno ultimatum alla repubblica francese, ha urlato de Villepin in parlamento, e gli amici politici più stretti di quello Chirac andato all’Eliseo con l’appoggio di una degeneratissima sinistra, hanno bollato lo sciopero generale come “un oltraggio alla democrazia e alla repubblica”. Lo smarcamento di Sarkozy è solo tattico in quanto prospetta la mera sospensione del CPE fino a quando, con la trattativa non lo si sarà fatto digerire anche ai suoi avversari, magari con l’aiuto di una qualche secondaria modifica dolcificante. Ma per il resto, e cioè per l’essenziale, la politica della classe dirigente è chiaramente definita: impedire una ulteriore generalizzazione del movimento in particolare al cuore del proletariato industriale (di qui i citati anatemi contro lo sciopero generale) e delle giovani generazioni operaie; impedire ogni forma di eventuale saldatura tra i giovani delle università e dei licei e la gioventù delle banlieues, usando contro questa, identificata tout-court coi casseurs e la “violenza”, il pugno duro, e contro i primi il guanto di velluto; fare leva sul lealismo dei dirigenti sindacali, e sul loro timore di una radicalizzazione e generalizzazione del movimento che finirebbe per travolgerli, affinché moderino un movimento già di suo abbastanza moderato, e lo portino al tavolo di una trattativa “costruttiva” con il potere; cercare di mobilitare contro il movimento le aree per ora passive del mondo studentesco e universitario che a buona ragione (per nascita, livelli e settori di competenza, appoggi, etc.) o a torto non si sentono minacciate dal CPE; fiaccare la massa oggi in movimento con la propria determinazione a non cedere, il che porta la cosa per le lunghe, e sfidandola a compiere dei passi ulteriori per i quali non sembra pronta… Divisioni secondarie (e inevitabili) a parte, la classe dominante francese mostra di avere una sua politica, che la “machiavellica” proposta di Chirac ben compendia: non mettere in discussione la legge tanto contestata, affinché sia chiara qual è la direzione di marcia in cui andare e chi deve avere l’ultima parola su di essa (non certo la piazza), ma nello stesso tempo predisporne una nuova che ne temperi, per il momento, gli aspetti più sgradevoli in attesa di poter piazzare appena possibile anche il secondo colpo.

7. I governanti francesi, oltre che sul fattore tempo, contano anche di poter utilizzare a proprio vantaggio una tendenza presente nella vita sociale e politica francese, e nient’affatto estranea agli stessi movimenti di lotta: quella che attribuisce i mali da cui il lavoro francese è affetto al processo di mondializzazione e alla importazione passiva del “modello neo-liberista” che si pretende, curiosamente, anglo-sassone. Una prospettiva che postula come via d’uscita dai guai del presente un sortir du monde, una specie di sganciamento nazionale (e nazionalista) dalla globalizzazione, ovverosia una nuova coesione sociale, social-nazionale, “alla francese”, in opposizione a un mondo dominato dall’impero a stellestrisce ed ai propri concorrenti (vedi la stessa vicenda Enel-Suez). Le Pen sta concimando da decenni il suolo di tutte le classi sociali, soprattutto di quelle lavoratrici!, con il veleno del “male che viene da fuori”, nel suo caso dall’immigrazione “selvaggia”; ma anche a sinistra e da sinistra (inclusi gli ambienti “alter-mondialisti” di Le Monde diplomatique) si sta spargendo a piene mani un analogo veleno circa le origini trans-oceaniche delle più brutali politiche “sociali”.
Un tale inquinamento, una simile tragica illusione pesa, crediamo, anche nel movimento in corso. F. Dubet, che ha appena concluso una indagine sulle inquietudini dei giovani francesi davanti alla precarietà, ha dichiarato a Le Monde (19-20 marzo): “Nella nostra inchiesta sul lavoro abbiamo trovato pochi salariati per i quali le ingiustizie [sociali] sono dovute al padronato o ai rapporti sociali [capitalistici]. Al contrario molti pensano in termini nazionali [nazionalistici] e ritengono che sia il mondo esterno a minacciarci”. E’ proprio la tendenza, o tentazione, ad uscire “dal mondo” che “spiega il successo del no al referendum sulla Costituzione europea, in particolare tra coloro che si ritengono i perdenti della storia, nei settori tradizionali in crisi o anche negli impieghi statali, i quali pensano che la propria posizione centrale sta per essere erosa”. Ed è sempre a questo che “si collega la strana alleanza [di fatto] tra una piccola borghesia tradizionale e popolare che si sposta verso l’estrema destra e un ceto medio d’impiegati dello stato che si sposta verso l’estrema sinistra”.
Né si può dimenticare la pressoché totale estraneità della Francia alle pur deboli iniziative no war che si sono date e si danno in Occidente contro le nuove devastanti aggressioni all’Iraq e al mondo arabo-islamico. Da un lato, perciò, abbiamo avuto e abbiamo una sequenza di accese lotte “sindacali”, da cui imparare; dall’altro c’è stata e c’è in Francia una vistosa assenza di sensibilità e di iniziativa politica anti-guerra, internazionalista, vi è stata anzi la convergenza plebiscitaria destra-sinistra sull’elezione e sulla politica “anti-americana” (si è visto quanto!) di Chirac, su un no alla Costituzione europea molto ambiguo (a dir poco), vi sono i maneggi d’un certo altermondialismo gallico assai poco “anti-imperialisti”, e così via. Non è tutto oro ciò che viene d’Oltralpe, e non sono da poco le debolezze del “movimento antagonistico”.

8. Lo si può vedere anche dal modo in cui giovani in lotta si stanno apprestando a fronteggiare la situazione.
Ha scritto B. Kagarlitsky: gli studenti del 2006 sono meno radicali, ma anche meno isolati che nel ’68, e la società francese del 2006 è “più di sinistra” che nel ’68. Se ben inteso, lo si può sottoscrivere. Sono dieci anni che in Francia tutte le lotte “sindacali” di un certo peso, dai ferrovieri ai trasportatori, dal pubblico impiego agli insegnanti e ricercatori, ed ora gli studenti, trovano l’approvazione e il consenso della “maggioranza” della società (piccole, ma molto significative, eccezioni, su cui molto ci sarebbe da riflettere: le lotte dei sans papiers e dei banlieusards…), un chiaro segno dell’ampiezza del malessere trasversale a più classi e ambienti sociali. Nonostante ciò il processo di smantellamento dello stato sociale, l’intensificazione dello sfruttamento del lavoro e della precarizzazione dell’esistenza dei salariati, appunto, non sono stati fermati. E’ vero: il movimento di marzo ha sollevato una questione centrale per il presente e il futuro di tutto il mondo del lavoro, ben al di là della Francia; è per questo che la sua azione ha raccolto simpatie e adesioni molto larghe al di fuori del mondo studentesco. Ma cosa si sta facendo per organizzare stabilmente questo enorme potenziale di lotta e saldarlo in un unico fronte? Poco, ci sembra. Che noi si sappia, solo nella “piattaforma di Digione” il movimento ha ricompreso tra le sue rivendicazioni qualcosa di più della mera abrogazione del CPE, chiedendo la cancellazione dell’intera legge chiamata beffardamente delle “pari opportunità”, un incremento della spesa per la scuola e l’assunzione di insegnanti, la revisione della legge Sarkozy sull’immigrazione e l’amnistia per i giovani delle banlieues. Vi è da domandarsi, però, quanto una simile piattaforma, pur insufficiente, viva per davvero dentro il movimento, ne esprima per davvero “l’anima”. Francamente ne dubitiamo, e non ci affidiamo fideisticamente agli ulteriori sviluppi spontanei del movimento stesso per veder colmata questa lacuna.
Alla politica delle forze capitalistiche (unitaria per entro le differenti articolazioni tattiche) va opposta un’altra politica capace di sintetizzare, di organizzare in chiave anti-capitalistica lo scontento che attraversa l’intero mondo del lavoro e degli strati sociali non sfruttatori, saldando in unità la marea dei già precarizzati con quanti ancora godono di “vecchie” garanzie. Una politica capace di guidare verso un compiuto antagonismo la frattura in atto tra le élites economiche e politiche che concentrano il potere di comando sulla vita sociale e la massa dei salariati e dei giovani senza potere (il che non equivale a: impotenti); di attrarre ad una lotta collettiva non più ipnotizzata dalle soffocanti “buone regole” della democrazia, ma finalmente determinata comme il faut, le frange del movimento ed i giovani più duramente marginalizzati che (sbagliando) vedono nella violenza immediata l’unico modo per esprimere la loro (giusta) ribellione, la loro (giusta) percezione che i margini di mediazione con i poteri costituiti si stanno azzerando; di inglobare senza riserve di sorta le attese e le istanze egualitarie ed anti-coloniali degli immigrati e di quanti, discendendo da immigrati, sono francesi solo sulla carta, sempre i primi ad essere colpiti dalle politiche anti-sociali; di collegare la denuncia di tutto l’arsenale delle misure volte a smantellare lo stato sociale e a precarizzare il lavoro con le aggressioni “esterne”, via FMI o via guerra, ai popoli “di colore” in cui il capitale e lo stato francese sono sempre più attivamente coinvolti, solidarizzando con la resistenza anti-imperialista di questi popoli; di protendersi verso i giovani e il proletariato dell’intera Europa, perché se è vero che i lavoratori e i giovani di Francia ci stanno dando da anni lezioni di “dignità”, non è vero invece che altrove si sia “schiavi contenti d’esser schiavi”. Le barriere di categoria, di generazione, di “razza”, di nazione non cadranno spontaneamente, per quanto esplosiva possa essere la spontaneità; e così pure la separazione, sempre più artificiale peraltro, tra la lotta economica e la lotta politica; esse vanno picconate con metodo da un’azione organizzata di avanguardia che esprima la coscienza di trovarci, alla scala mondiale, alle soglie di una grande crisi sociale e politica, la certezza che oggi più che mai non ci sono soluzioni capitalistiche ai mali sociali prodotti dal capitalismo, né tantomeno ci può essere una soluzione francese, “nazionale” alla precarizzazione, al supersfruttamento del lavoro e a tutto il “resto”; c’è soltanto una soluzione globale, mondiale, comunista, e per essa vale la pena battersi –e pazienza se ciò può suonare ancora per un po’ “vecchio”.
Non ci attendiamo che questo movimento sappia colmare d’un sol colpo, e così com’è, la (grandissima) distanza che lo separa da una maturità antagonistica all’altezza di quella dei suoi avversari di classe; ma chiediamo alle sue componenti più vive di cominciare a muoversi in questa direzione, come lo chiediamo (si veda la nostra parallela presa di posizione sui recenti fatti di Milano) a quanti in Italia non hanno abbandonato il terreno della lotta per frequentare le sotto-segreterie dell’Ulivo invocando da loro qualche segnale purchessia di “discontinuità” dalla politica del cavaliere. La lotta in corso in Francia non va lasciata solo, ci riguarda a fondo, così come la storia sociale e politica del movimento di classe e del movimento giovanile in Francia è parte della nostra stessa storia.

1 aprile 2006

04 aprile 2006

Miscellanea anticlericale (nel caso ce ne fosse ancora bisogno)

Santo subito

0. Links

1. Benedetto XVI: un tedesco di guardia ai roghi (La Plebe)
2. Ancora insistono con la "pista bulgara" (Oss. Balcani)
3. Un uomo generoso e un papato disastroso (F. Barbero / Comunità
cristiana di base)
4. Le "Madres de Plaza de Mayo" al Papa sul caso Pinochet
5. Cile e Vaticano: Una pagina imbarazzante (G. Perreli, da L'
Espresso 10 dicembre 1998)

6. «Il primo Papa no global della storia»: l'unanime coro dei
genuflessi politici italiani


=== 0. LINKS ===

LE RESPONSABILITA' VATICANE NEL CONFLITTO BALCANICO: ALCUNI ELEMENTI.
a cura del Comitato unitario contro la guerra alla Jugoslavia [1999]

http://www.cnj.it/CHICOMEPERCHE/sfrj_04.htm

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Pagheremo caro…ma pagheremo tutti?

IL VATICANO NON DA' UNA MANO
Dossier

SOMMARIO
Introduzione
Pagheremo caro… ma pagheremo tutti?
APSA e IOR. Pilastri economici e finanziari del Vaticano
Il particolare ruolo della Mittel SpA
L'inganno dell'Otto per mille
L'esenzione dal pagamento dell'ICI
Quanto costa l'ora di religione?
Radio Vaticana: una radio al di sopra della legge

Dossier a cura di Radio Città Aperta

SCARICABILE ALLA PAGINA:

http://www.contropiano.org/ (sezione "Documenti")

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De Jean-Paul II à Benoît XVI
L'Église catholique et le projet états-unien de « guerre des
civilisations »

Comme il existait un tandem Jean-Paul II/ Ronald Reagan, il existe
désormais un tandem Benoît XVI / George W. Bush. Cependant le nouveau
pape ne devrait pas marquer de rupture avec son prédécesseur, mais
poursuivre un virage qu'il a amorcé depuis plusieurs mois, en sa
qualité de régent de fait du Saint-Siège. L'Église catholique espère
que la croissance démographique de la communauté hispanique lui
permettra de devenir rapidement majoritaire aux États-Unis et de
devenir la religion officielle du nouvel Empire. Elle se propose aussi
d'exclure l'islam de l'Europe pour faire entrer le continent dans la «
guerre des civilisations ». Par Thierry Meyssan

http://www.voltairenet.org/article16943.html

---

Giovanni Paolo II, un grande amico dei Croati

04.04.2005 [Drago Hedl] Dal ruolo svolto nel riconoscimento
dell'indipendenza della Croazia all'appello alla riconciliazione,
pronunciato a Zagabria nel 1994. Papa Wojtyla ha avuto un'importanza
cruciale nella storia recente del Paese, che ha visitato tre volte. I
Croati piangono un padre [NOTA BENE: in questo articolo, profondamente
reticente e politically correct, non viene nemmeno menzionata la
beatificazione dell'arcivescovo nazista Stepinac e si scrive che nel
1994 le Krajne erano "occupate dai ribelli serbi" (sic).]

http://www.osservatoriobalcani.org/article/articleview/4062/1/51/

---

Walter Peruzzi: I crimini di Dio

Negli ultimi decenni la crisi della modernizzazione ha determinato la
crescita delle religioni, prontamente sfruttata da imam, papi e
chierici vari per riproporre la teocrazia e lo scontro con il
razionalismo illuminista ed il pensiero laico. La chiesa cattolica
gode di una fama quanto mai immeritata di santità ed onestà. Dalle
origini ad oggi, si è contraddistinta per la difesa della schiavitù,
le crociate, la discriminazione delle donne, le campagne omicide
contro indios, eretici, atei.
25-02-2006 - 835 letture

http://www.terrelibere.org/counter.php?riga=218&file=218.htm


--- LINK BREVI:


IL PAPA HA `OCCULTATO' L'INCHIESTA SUGLI ABUSI SESSUALI
Una lettera confidenziale rivela che Joseph Ratzinger ordino' ai
vescovi di non svelare gli abusi sessuali su minori perpetrati da
ecclesiastici

http://www.nuovimondimedia.com/sitonew/modules.php?op=modload&name=News&file=article&sid=1238


1978-2003, IL GIUBILEO DEI REPRESSI: I 25 ANNI DEL PONTIFICATO DI PAPA
WOJTYLA VISTI DA UN'ALTRA PARTE
Il dossier rivela tutti i casi di repressione ecclesiale e teologica
disposti, a partire dal 1979, da papa Wojtyla e dai capi dicastero da
lui scelti

http://www.adistaonline.it/speciali/76italiano.pdf


Antonio Gramsci: Il Vaticano
Articolo di La Correspandance Internationale, 12.03.1924

http://www.resistenze.org/sito/te/cu/la/cula5d16.htm


Questo papa non è stato un grande papa - di Tiziano Tussi

http://www.resistenze.org/sito/te/cu/la/cula5d08.htm


I giorni deliranti del lutto mediatico - di Enrico Penati

http://www.resistenze.org/sito/te/cu/li/culi5d06.htm


La morte del Papa. Note inattuali - di Gino Candreva

http://www.resistenze.org/sito/te/cu/st/cust5d05.htm


Funerali del Papa: un episodio di Simonìa massmediatica - Contropiano
10-04-2005

http://www.anti-imperialism.net/lai/texte.php?langue=5§ion=&id=23717


Hans Küng: Wojtyla, il Papa che ha fallito

http://it.groups.yahoo.com/group/aa-info/message/9997
http://www.corriere.it/Primo_Piano/Documento/2005/03_Marzo/26/index_kung.shtml


Ratzinger su Stepinac (Visnjica broj 491)

http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/4370


Lettera a Wojtyla di Don Vitaliano della Sala

http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/4368


L'altra faccia del Papa: l'eredità di Giovanni Paolo II nei Balcani
Another Side of the Pope: John Paul II's Balkan Legacy

http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/4366
http://www.balkanalysis.com/modules.php?name=News&file=print&sid=523


Habemus Europam (aprile 2005)

http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/4378


KAROL WOJTYLA: Tutte le guerre dell'ultimo papa
di TOMMASO DI FRANCESCO da "IL MANIFESTO" del 9 aprile 2005

http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/4424


Il Santo Guerriero - di Enzo Bettiza

http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/4364


=== 1 ===

http://it.groups.yahoo.com/group/aa-info/message/10045

Benedetto XVI: un tedesco di guardia ai roghi

Sullo sfondo di un ventennale conflitto epocale, d'un regolamento di
conti immaginificamente in bilico tra il vecchio western e la guerra
fredda, l'umile lavoratore della vigna del Signore ha conquistato il
feudo più imponente del mondo. E se le luci della ribalta del suo
pontificato non diventeranno fuochi dell'Inquisizione spagnola sarà
solo per limiti tempo. Quel tempo che manca a Joseph Ratzinger, Papa
di transizione, settantottenne pastore tedesco.

::il libro bianco::

Nativo di Marktl, in Baviera, dove la locale pro-loco si affretta a
lucidare, per i turisti della fede, le pagane vestigia della sua vita
precedente (unghie e incrostazioni calcaree comprese), aviatore
tardivamente antinazista, prete negli anni Cinquanta e teologo
successivamente, ex-progressista folgorato sulla via di Damasco,
pupillo delle sette più oscurantiste, cardinale.

Arcivescovo di Monaco di Baviera, come rappresentante in capo della
influente e potentissima "ala tedesca", capeggiò da grande elettore la
nomina di Karol Woytjla al soglio pontificio, opzionato a sorpresa in
quanto papa debole e facilmente manipolabile, adatto alla contingenza
dello scontro interno e perciò stretto come preda tra le ragnatele del
potere ecclesiastico diviso in fazioni.

Da una parte la loggia massonico-curiale, dall'altra la crescente,
inarrestabile Opus Dei, reazionaria e medievale.

È del cardinale tedesco la regia della prima decisa svolta autoritaria
e restrittiva della gestione del polacco. Bersaglio: le suggestioni
conciliari più avanzate, i teologi che - bontà loro - ritenevano il
Vaticano II viatico dell'ecumenismo moderno e - eretici! -
individuavano nelle istanze del Concilio una giusta integrazione del
cattolicesimo con le istanze più moderate del protestantesimo,
un'apertura alla modernità.

Che il Concilio Vaticano II fosse pietra dello scandalo e pesasse -
come pietra - sulle scelte delle fazioni in lotta entro le mura, non è
mai stato un segreto per nessuno. Settori dell'integralismo vi
intravedevano finanche la "morte della Chiesa" e, nell'attesa di
smantellarne i precetti, provvedevano ad eroderne i contenuti.

Capofila della battaglia al riformismo, la santa piovra dell'Opus Dei,
congregazione segreta che annovera Ratzinger tra le punte di diamante.

Nella seconda metà del 1979 la Congregazione per la dottrina della
fede (l'antica Inquisizione) guidata dal cardinale croato Franjo
Seper, dopo aver attaccato il teologo francese Jacques Pohier e
l'olandese Edward Schillebeeckx, trascina sotto processo lo svizzero
Hans Kung, docente progressista presso l'Università di Tubinga. In
cabina di regia: Joseph Ratzinger. Kung, giudicato "deviazionista"
dalla "verità integrale della Chiesa" perse la cattedra.
Ratzinger ipotecò la poltrona di prefetto dell'ex Sant'Uffizio, che
ottenne il 25 novembre del 1981. L'Opus Dei ne gioì vistosamente. Da
tempo il Panzerkardinal aveva avuto modo di farsi conoscere per le sue
tesi anticonciliari ed antimoderniste e, con dalla sua una laurea
honoris causa dell'Università dell'Opus di Pamplona, si era già
meritato il soprannome di Adolf.

::digressione::

Ma i più accorti compagni, da qualche settimana apertamente adoranti
verso ogni feticcio che sappia di potere temporale ecclesiastico,
tirano il freno e mettono in guardia dal giudicare troppo
affrettatamente simili dettagli e dal relegare un pontificato nei
parametri della politica. L'ultimo avviso in tal senso è venuto dal
compagno Nichi Vendola, neo-governatore delle terre di Puglia.
Rispondiamo, ossequiosi come sempre, che costoro non hanno nulla da
temere dal nostro ostinato lavoro di ricerca: solo perché uno è
tedesco, volava con la Luftwaffe, combatteva in tonaca il comunismo
sul fronte orientale, scomunicava i teologi progressisti, rinnegava il
modernismo e nelle cerchie vaticane lo chiamano Adolf, non è detto che
non possa essere un buon papa compatibile con i precetti del
socialismo! (ironia da sottolineare, vista la tristezza che dilaga nel
movimento).

::la scalata::

All'inizio del 1983 esplode, nei ranghi ecclesiastici, la polemica
sulla "deterrenza nucleare" reaganiana. L'episcopato statunitense
gradirebbe una critica aperta del Vaticano alla corsa al riarmo e
nell'attesa fa da sé, con un documento in cui giudica "immorale" la
minaccia nucleare. Gli Usa si irritano. Ratzinger è fuori di sé dalla
rabbia. Chiude a doppia mandata le porte dell'assemblea vaticana e
presiede, accanto al "progressista" Casaroli, una due giorni con
esponenti dell'episcopato europeo, dal quale esce brandendo un
documento che all'unanimità obbliga i colleghi di tonaca americani a
prendere atto della "moralità" della politica di Raegan. Il pastore
tedesco, a margine della sudata, commentò: "Credo che l'etica, per
essere seria, non possa prescindere da un certo realismo".

Il 26 novembre 1983 è lui ad avere l'onore storico di vergare la
parola "fine" nell'antica controversia tra cattolicesimo e massoneria,
infliggendo un colpo semi-mortale alla fazione curiale, da sempre
attiva in Vaticano con metodi che rasentavano l'agire delle Logge. In
pratica il Santo Uffizio di Ratzinger corregge la posizione tollerante
del Codice di diritto canonico woytjliano e ribadisce
l'inconciliabilità tra Chiesa e massoneria. Da quel momento in poi
ogni avversario dell'Opus nelle cerchie infernali del Vaticano potrà
essere etichettato come "massone" e ricevere il benservito tramite
sempiterna scomunica. Colpo di classe.

A distanza di un anno, il 6 novembre 1984, prosegue l'opera di
restaurazione dichiarando pubblicamente chiusa la "primavera
conciliare", madre di decadenza, degenerazioni inaccettabili, fino
alla paventata "autodistruzione": "dopo le esagerazioni di una
apertura indiscriminata al mondo, dopo le interpretazioni troppo
positive di un mondo agnostico e ateo" Ratzinger definisce la
restaurazione "auspicabile" e "già in atto". Ribadirà il tutto,
rincarando la dose, nel suo libro-intervista Rapporto sulla fede,
pubblicato nel maggio del 1985. L'Opus Dei plaude al suo pupillo e, da
quel momento in maniera definitiva, lo candida alla successione di
Woytjla.

Il dissidente Hans Kung commentò: "Per Ratzinger, oggi esiste al mondo
un unico buon teologo: Joseph Ratzinger. È l'orgoglio dell'uomo di
potere che del potere si è impossessato". Ebbe inoltre il tempo, il
silurato Kung, di sottolineare come l'Opus Dei fosse
"un'organizzazione segreta, un'istituzione teologicamente e
politicamente reazionaria, immischiata nelle banche, nelle università
e nei governi, che ostenta tratti medievali e controriformistici"
sottratta al dominio dei vescovi grazie allo status di "prelatura
personale" concessole da Giovanni Paolo II.

Dopo il Sinodo straordinario dei vescovi del 1985, qualcuno osservò:
"è stato seppellito il Vaticano II, ma senza certificato di morte né
funerale". Lo strapotere della fazione opusiana era evidente e
straripante.

Un ex-membro dell'organizzazione scrisse: "Non ci sono dubbi che
l'obiettivo dell'Obra è di conquistare il potere politico, bancario,
militare. Il sogno, la cospirazione machiavellica che muove gli uomini
dell'Opus è di entrare in tutti i gangli vitali della vita del Paese,
per condizionarli".

::la successione::

Nel 1992 il mondo si accorse, suo malgrado, delle precarie condizioni
di salute di Karol Woytjla. Il Sommo Pontefice era malato del morbo di
Parkinson. Quella stessa estate la guida del pontificato venne di
fatto assunta da un direttorio composto da sei eminenti personaggi
della curia: Ratzinger c'era. Con lui Dziwisz, Re, Navarro-Valls,
Sodano e Ruini.

Il 22 febbraio 1996 al febbricitante Pontefice fu fatta firmare la
costituzione apostolica Universi Dominaci Gregis, contenente
innovazioni importanti sul futuro conclave e disposizioni
sull'elezione del nuovo Papa della cristianità, la più importante
delle quali prevedeva l'annullamento del quorum dei due/terzi dei
votanti già alla trentaquattresima votazione. In sostanza si
facilitava l'avvento della maggioranza semplice. E con la pioggia di
Concistori del pontificato polacco, con la nomina di più di un
centinaio di nuovi cardinali a maggioranza opusiana, l'Opus si
garantiva la successione. Semmai ce ne fosse stato bisogno, giacché a
Papa infermo, dal Giubileo in poi, le consultazioni sono avvenute a
Papa vivo, in un clima grottesco e tragico. Ciò giustifica la brevità
da record del Conclave a cui abbiamo assistito per ventiquattro ore.
Un conclave a lungo preparato, preconfezionato, inscatolato dalla
macchina bellica dell'Opus Dei per riaffermare la propria assoluta
padronanza dell'Impero papale e - secondo qualcuno - organizzato senza
un valido avversario dell'aviatore tedesco, per via della debacle
della fazione curiale, residuale dopo il pontificato di Woytjla, il
Papa dell'Opus.

Magari esclusivamente orientato contro le mire del cardinale Carlo
Maria Martini, progressista e innovativo, definito una "sventura"
dalla mafia spagnola togata.

Di cui un suo ex-membro dice: "L'Opus è come una droga, e fa anche
male alla salute mentale. Ci sono molti che hanno perduto la salute
psichica vivendo dentro l'Obra. Ho conosciuto personalmente due casi
di persone che hanno avuto gravissime crisi psichiche, vivendo
nell'Opus."Ho un problema di vocazione, padre", annunciava ogni tanto
qualche giovane socio. E loro, quelli dell'Opus, rispondevano a tutti
nello stesso modo: "Vai a letto, figliolo, e prenditi un Valium".

Seguite il consiglio del buon padre e buon pontificato a tutti.

La redazione di "Plebe" - riverente e foggiana

20 aprile 2005


=== 2 ===

http://www.osservatoriobalcani.org/article/articleview/4059/1/51/

Bulgaria, tra lutto ed indignazione

04.04.2005 scrive Tanya Mangalakova
1981. Attentato al Papa. Emerge una pista bulgara, mai dimostrata. Nel
2002 lo stesso Pontefice, durante una visita a Sofia, nega vi siano
connessioni tra l'attentato da lui subito e la Bulgaria. Ma non basta,
e proprio in questi tragici giorni, la pista bulgara è emersa
nuovamente. Le reazioni in Bulgaria


Tutti i principali media bulgari si sono occupati con servizi speciali
della morte di Papa Giovanni Paolo II, lo scorso 2 aprile. I cattolici
della Bulgaria sono in lutto. In Bulgaria la comunità cattolica
ammonta – secondo il censimento del 2001 - a 43.000 persone circa, lo
0,6% della popolazione. Quest'ultima è concentrata soprattutto nella
città di Plovdiv, Bulgaria centrale, ed ha reagito al tragico evento
con forte trasporto. La maggioranza della popolazione del villaggio di
Rakovski, non lontano di Plovdiv, dove il 90% della popolazione è
cattolico, ha dichiarato di essere pronta e recarsi in pellegrinaggio
a Roma per i funerali del Papa.

Il principale canale della televisione pubblica, BNT 1, ha
ritrasmesso le immagini della visita del Pontefice in Bulgaria, nel
maggio del 2002. "Non ho mia creduto nella cosiddetta "pista bulgara".
Sono molto legato ed affezionato al popolo bulgaro", riferì Giovanni
Paolo II al presidente Georgi Parvanov in quell'occasione.

I media bulgari in questi giorni non si sono solo occupati nel
seguire con attenzione gli ultimi giorni del Papa ma anche del
riemergere delle polemiche – e della pista bulgara - riguardanti
l'attentato che il Papa subì nel 1981. Le autorità bulgare – che
avevano molto lavorato nel 2002 affinché proprio la visita del
Pontefice potesse finalmente cancellare quell'onta che ritenevano
pesasse sull'immagine del proprio Paese – hanno reagito con indignazione.

Così ha fatto ad esempio lo scorso 1 aprile il Presidente Parvanov
che ha dichiarato che "Lo stesso Papa, nella sua visita del 1981,
aveva escluso quest'ipotesi ritenendola un'ingiustizia nei confronti
del nostro Paese".

Il Presidente bulgaro si è detto inoltre sorpreso che quest'ipotesi
sia riemersa proprio due settimane prima della visita ufficiale del
Presidente italiano Azeglio Ciampi a Sofia. "Il governo bulgaro
considera chiusa la questione. Non vi è alcuna connessione tra la
Bulgaria e l'attentato al Papa nel 1981" ha dichiarato ai media locali
Germana Granchova, vice Ministro degli Esteri.

Dal punto di vista giudiziario si era messa la parola fine alle
ipotesi con l'assoluzione in un processo in Italia di Sergei Antonov -
un ex dipendente della compagnia aerea a Roma Balkan Air accusato di
aver partecipato all'organizzazione dell'attentato - per insufficienza
di prove. Il governo bulgaro ha dichiarato comunque di essere a
disposizione per rispondere ad ogni richiesta di informazione, pur
specificando che sino ad ora non ve ne sarebbe stata alcuna.

Documenti segreti

I media bulgari, riprendendo i colleghi italiani, hanno scritto che
l'Italia riaprirà un'inchiesta in modo da venire in possesso dei
documenti riservati delle autorità bulgare sulla questione. I media
bulgari hanno riportato di articoli in Italia dove si affermava che in
questi documenti vi si troverebbero le prove che il KGB sovietico
avrebbe pianificato l'attentato, ed i sevizi segreti della DDR, STASI,
e della Bulgaria, vi avrebbero preso parte.

Secondo Metodi Andreev, in passato a capo della Commissione
parlamentare sui dossier dei servizi segreti, vi sarebbero almeno un
miglio di carteggi tra la STASI ed i servizi segreti bulgari. "Tra
queste ve ne è una dove i servizi segreti bulgari richiedono alla
STASI di fare tutto il possibile per provare l'estraneità della
Bulgaria alla vicenda e per difendere i suoi agenti", ha ricordato
Andreev. Questo, secondo i media bulgari, non proverebbe però nulla:
la Bulgaria avrebbe solo richiesto l'aiuto della DDR per dimostrare la
propria innocenza. Il portavoce del governo, Dimitar Tzonev, ha reso
noto che tutti questi documenti sono a piena disposizione delle
autorità italiane.

La polemica era partita da Berlino. Nei giorni scorsi i media
internazionali avevano infatti riportato che alcuni documenti
rinvenuti nell'archivio della STASI dimostrerebbero il coinvolgimento
di quest'ultima e del KGB e della Bulgaria nell'attentato al Papa. Due
dei principali quotidiani della Bulgara, Troud e 24 Chassa, riportano
però smentite. "Non abbiamo e non abbiamo mai avuto documenti che
rappresentino una prova del coinvolgimento di KGB, STASI o servizi
segreti bulgari nell'attentato a Giovanni Paolo II", ha dichiarato ai
due quotidiani Christian Boos, portavoce della commissione che a
Berlino si occupa del mantenimento dell'archivio della STASI.

Reazioni

Si è scatenata una forte emotività in Bulgaria sul riemergere della
questione. Anche perché questo è avvenuto in concomitanza con la fine
del pontificato di Giovanni Paolo II. I media ne sono stati un fedele
specchio. Il quotidiano Monitor ha scritto nelle sue colonne che i
bulgari non debbono farsi attrarre dalla trappola creata dal giudice
in pensione Ferdinando Imposimato - che a lungo si è occupato del
caso - che non ha mai smesso di diffondere versioni della vicenda che
richiamavano questi archivi della STASI. Troud invece riconduce
l'emersione della pista bulgara al 1982 quando ne parlò per la prima
volta lo statunitense Readers Digest.

Dure le reazioni sempre di Troud ad un'intervista rilasciata da
Ferdinando Imposimato per il settimanale italiano Oggi. "Vi sono
almeno tre grossolani errori del magistrato nell'intervista
rilasciata" si afferma in un editoriale "innanzitutto si afferma che
Dimitar Stoyanov era Ministro degli esteri, ed invece era Ministro
degli interni. Poi Imposimato ha dichiarato che Sergei Antonov – uno
dei tre bulgari sospettati di aver partecipato all'attentato - era un
genrale dei servizi segreti ed invece era un impiegato in una
compagnia aerea, tant'è che ora vive di una pensione di 100 euro.
Imposimato ha inoltre richiesto di incontrare Jordan Ormankov, che in
passato si era occupato in Bulgaria dell'inchiesta ed aveva anche
interrogato Ali Agca, condannato poi per aver sparato al Pontefice, ma
Ormankov è morto ben 3 anni fa. Certa gente per continuare ad avere
emozioni forti sprofonda nel passato. Ma la verità è una sola: quella
sottolineata dal Papa durante la sua visita in Bulgaria del 2002",
conclude al vetriolo Troud.

"Non ho mia creduto nella pista bulgara e questo è stato uno dei
principali motivi delle mie dimissioni" ha affermato durante una
trasmissione su BNT 1 Melvin Goodman, ex membro della CIA nel
dipartimento che si occupava dell'Unione Sovietica. Goodman ha poi
aggiunto che era a conoscenza del fatto che la Bulgaria non fosse
coinvolta nell'attentato. "Il direttore della CIA di allora, William
Casey ed il suo vice, mi ordinarono di produrre alcuni documenti che
potessero addossare le responsabilità dell'attentato a URSS e Bulgaria".

Secondo alcuni commentatori il riemergere di questa questione
potrebbe essere derivato dal tentativo di screditare l'immagine del
Paese alla vigilia della firma dell'accordo per l'integrazione della
Bulgaria nell'UE, prevista il prossimo 25 aprile.

Vi sono stati anche alcuni commenti sarcastici: "Viva la pista
bulgara!" ha scritto sul settimanale 168 Chassa lo scrittore Stefan
Kissiov "Non è una questione ciclica ma eterna. E' tempo di prenderne
atto. Come i rumeni hanno fatto i soldi con Dracula, noi dovremmo
farli con la pista bulgara. Qualche ONG potrebbe investire in un museo
titolato a quest'ultima. Si potrebbero anche vendere cappellini con la
scritta: "Ho sparato al Papa, prossimamente sparerò anche a Berlusconi!".


=== 3 ===

25 anni di pontificato

Un uomo generoso e un papato disastroso

La gara è aperta. Chierichetti di destra e di sinistra, su tutti i
video e su tutti i giornali (le eccezioni quasi non si vedono) stanno
andando a gara nello "straparlare", nel tessere elogi per questo
pontificato che "ha cambiato la storia", "si è aperto a tutte le
religioni", "ha visitato tutto il mondo", "ha parlato ai grandi e ai
piccoli", "si è esposto come un eroe della pace". E chi più ne ha più
ne metta. In tutto questo interessato esercizio di retorica ci sono
parecchie omissioni, numerose menzogne, molte dimenticanze. In questo
modo si fanno tacere i fatti.

La struttura della chiesa

Non voglio certo negare la generosità dell'uomo Karol Wojtyla e le sue
intenzioni sincere. Non stiamo parlando di questo. La sua attuale
sofferenza (a parte l'uso interessato e perverso che ne fa
l'istituzione ecclesiastica) ci inclina al rispetto. Anzi, di Wojtyla
mi è sempre piaciuta la passione, anche se quasi sempre essa è stata
contaminata da una cultura del dominio e della spettacolarità.

I fatti ci dicono che in questi 25 anni il papa ha cambiato tutta la
gerarchia, ma soprattutto ha azzerato la collegialità, soffocandola
sotto la sua immagine imperiale onnipresente e sotto una curia
vaticana onnipotente. I vescovi sono stati ridotti a "caporali di
giornata" perché il minimo sgarro può segnare la destituzione,
l'accantonamento o il prepensionamento. Gli ultimi "frammenti" del
Concilio sono stati sepolti sotto una montagna di documenti vaticani.

Su questioni vitali per la testimonianza del Vangelo nel mondo di oggi
(bioetica, etica sessuale, femminismo, ministero delle donne,
possibilità delle seconde nozze, omosessualità, celibato dei preti,
innovazioni liturgiche .) questo papato ha avuto l'arroganza di porsi
come detentore della verità, lasciando in eredità una serie di
pronunciamenti che potranno degnamente figurare nell'albo familiare
del "cristianesimo criminale".

Ha avuto la spudoratezza di presentare come modello, di proclamare
"santo" Escrivà De Balaguer, un uomo autoritario, amico della
dittatura, sessuofobico. Non parliamo poi di ecumenismo: si dialoga
con tutti, ma da un trono sopraelevato. Il papato ha dovuto
necessariamente "rifare i conti" con l'ebraismo, con l'Olocausto, con
l'islam e le religioni asiatiche. Tutto è avvenuto con toni e
linguaggi diplomatici, ma con l'incessante e sottile richiamo alla
indiscussa "supremazia cattolica". La teologia della compagnia, del
"camminare alla pari" è stata totalmente disattesa. Così pure questo
papato è giunto alla scomunica ufficiale (si pensi al caso del teologo
Tissa Balasuriya) e alla defenestrazione sistematica di teologi, di
preti, di operatori pastorali mentre ha promosso ai massimi livelli
della curia romana un cardinale come Pio Laghi, grande collaboratore
nello sterminio di giovani argentini invisi alla dittatura.

Il sospetto per la libertà di ricerca e di espressione ha determinato
un atteggiamento sacrale (il sacerdozio al centro della chiesa) e
tradizionalistico, sopprimento la ricca pluralità della tradizione
cristiana. Insomma. la "struttura wojtyliana" della chiesa ha prodotto
un'amara macedonia, una velenosa miscela di patriarcalismo, di
sessuofobia-omofobia, di sacralità, di repressione, di oscurantismo.
Né possono bastare solenni confessioni dei peccati passati come
"captatio benevolentiae" se poi non avviene una reale conversione.

Non si dica che ci vorrà un altro papato per riparare i guasti di
questo "papa re e imperatore". Potremmo trovarci qualche brutta
sorpresa nei prossimi mesi. Il gioco della successione è in atto e non
promette nulla di buono. Ma non spendo la mia speranza nel cambiamento
del timoniere. Ci vuole ben altro: è necessaria, a mio avviso, una
generazione di donne e di uomini che prendano in mano la gestione
della propria fede, senza più attendere il permesso, l'autorizzazione
o la benedizione della casta gerarchica. Da oggi, senza attendere un
miracoloso domani.

Il mito del papa della pace

Questa è l'ultima favola: Wojtyla eroe della pace. Non mi sembra che
un papato di pace avrebbe diviso la chiesa in chi è dentro e chi è
fuori, in ortodossi e in eretici, in "naturali" e "contro natura", in
buoni e cattivi, in maschi che possono esercitare il ministero e in
donne che debbono servire, in clero che comanda e laici che
obbediscono. Non solo: un papa di pace non avrebbe toccato la mano,
dato la comunione e benedetto un tiranno assassino come Pinochet.

Gesù, quando incontrava i potenti, parlava chiaro. Se tutti ora
partecipano ai festeggiamenti per questi 25 anni di pontificato, è
perché, tutto sommato, anche i più criminali non si sono sentiti
profeticamente attaccati ed evangelicamente sconfessati dalla retorica
papale. A Gesù i potenti hanno fatto ben altri festeggiamenti a
Gerusalemme e sul Calvario.

Restano le parole del papa nel corso dell'ultima guerra. Parole
decantate da tutti come "straordinaria profezia di pace". Il convegno
annuale di "Missione Oggi", mensile dei saveriani, svoltosi a Brescia
il 17 maggio, ha analizzato le dichiarazioni delle gerarchie
cattoliche sulla guerra. Le conclusioni sono chiare: le gerarchie
cattoliche non sono pacifiste.

L'agenzia Adista, in data 7 giugno 2003, riporta le affermazioni di
Massimo Tosco, uno studioso non sospetto: "Se le chiese non vogliono
sfigurare il Vangelo devono testimoniare con forza la pace, senza
addentrarsi in improbabili distinzioni, dalla legittima difesa alla
necessità di disarmare i dittatori. Le gerarchie ecclesiastiche
all'inizio non erano contro la guerra, ma solo contro la guerra
preventiva. E anche successivamente, quando hanno 'radicalizzato' le
loro posizioni, non sono mai riuscite a dire no alla guerra in quanto
tale: basta leggere le dichiarazioni e gli interventi del card. Ruini,
o i documenti delle associazioni e dei movimenti ecclesiali benedetti
dalla Conferenza episcopale italiana come le Sentinelle del mattino"
(cfr. Adista 25 e 28/03). Lo stesso Giovanni Paolo II, secondo
Toschi,è su questa linea: "Il papa non ha mai pronunciato un no alla
guerra 'senza se e senza ma'; ha invece sempre arricchito i suoi
discorsi di sottili distinzioni ispirate alla dottrina della guerra
giusta, come in occasione del discorso agli ambasciatori accreditati
in Vaticano" (cfr. Adista 7/03). La novità sorprendente è che,
"nonostante queste distinzioni, le parole del papa sono state
interpretate come un no secco alla guerra dai cattolici, che non hanno
tenuto in nessun conto i concetti della legittima difesa o della
necessità di disarmare l'aggressore. Hanno invece, con molta
semplicità, interpretato il Vangelo dalla parte delle vittime",
facendo passare anche il papa per un pacifista assoluto, il che non è
vero.

La speranza che non muore

Oltre le ambiguità e i disastri di questo papato, resta intatta la
speranza. La chiesa imperiale e il cristianesimo del potere sono
giunti al capolinea. Le televisioni di tutto il mondo riempiranno gli
schermi e diffonderanno ovunque le immagini di un funerale faraonico e
di un conclave sacro e storico. Sarà uno spettacolo di grande smalto e
di catturanti emozioni. Solenni liturgie in cui i grandi della terra
faranno adeguata comparsa. I gerarchi vaticani, nelle loro porpore,
annunceranno al mondo che lo Spirito Santo ci regala un nuovo "vicario
di Cristo" mettendo sul conto di Dio la perpetuazione di una
istituzione mondana e oppressiva come il papato.

Sono sicuro che anche nel cuore di qualche cardinale si fa strada una
profonda inquitudine. Bisogna sempre ritornare a Nazareth, sui
sentieri del Nazareno, riprendere il suo messaggio e il suo progetto
di semplicità, di amore e di giustizia. Il resto appartiene alla
storia dei potenti.

Pinerolo, 16 ottobre 2003

Franco Barbero

Associazione Viottoli - Comunità cristiana di base

c.so Torino 288 10064 Pinerolo (To) -- tel. 0121322339 - 0121500820
-- fax 01214431148

info @viottoli.it - http://www.viottoli.it


=== 4 ===

Fonte: Indymedia, Friday, Apr. 08, 2005

Le "Madres de Plaza de Mayo" al Papa sul caso Pinochet

Buenos Aires, 23 febbraio 1999

Signor Giovanni Paolo II

Ci è costato varii giorni il subire la domanda di perdono
che Lei, signor Giovanni Paolo II Wojtila, ha richiesto per il
genocida Pinochet.
Ci rivolgiamo a Lei come ad un cittadino comune perché ci
sembra aberrante che dalla sua poltrona di Papa nel Vaticano, senza
conoscere né aver sofferto in carne propria il pungolo elettrico
(picana), le mutilazioni, lo stupro, si animi in nome di Gesù Cristo a
chiedere clemenza per l'assassino.
Gesù è stato crocifisso e le sue carni lacerate dai giuda
che come Lei oggi difendono gli assassini.
Signor Giovanni Paolo, nessuna madre de1 terzo mondo che
ha dato alla luce un figlio che ha amato, coperto e curato con amore e
che poi è stato mutilato e ucciso dalla dittatura di Pinochet, di
Videla, di Banzer o di Stroessner accetterà rassegnatamente la sua
richiesta di clemenza.
Noi La incontrammo in tre occasioni, però Lei non ha
impedito il massacro, non ha alzato la sua voce per le nostre migliaia
di figli in quegli anni di orrore.
Adesso non ci rimangono dubbi da che parte Lei stia, però
sappia che
sebbene il suo potere sia immenso non arriva fino a Dio, fino a Gesù.
Molti dei nostri figli si ispirarono a Gesù Cristo, nel
donarsi al popolo.
Noi, la Associazione "Madres de Plaza de Mayo"
supplichiamo, chiediamo a Dio in una immensa preghiera che si
estenderà per il mondo, che non perdoni Lei signor Giovanni Paolo II,
che denigra la Chiesa del popolo che soffre, ed in nome dei milioni di
esseri umani che muoiono e continuano a morire oggi nel mondo nelle
mani dei responsabili di genocidio che Lei difende e sostiene,
diciamo: No lo perdone, Señor, a Juan Pablo Segundo.

Asociación Madres de Plaza de Mayo


=== 5 ===

Cile e Vaticano: Una pagina imbarazzante. Caro Pinochet, il papa La
benedice
di Gianni Perreli

da L' Espresso 10 dicembre 1998

A vent'anni dal golpe la legittimazione più calorosa arrivò al
dittatore Augusto Pinochet dalle stanze del Vaticano. 18 febbraio
1993: la privatissima ricorrenza delle sue nozze d'oro viene allietata
da due lettere autografe in spagnolo che esprimono amicizia e stima e
portano in calce le firme di papa Wojtyla e del segretario di Stato
Angelo Sodano. «Al generale Augusto Pinochet Ugarte e alla sua
distinta sposa, Signora Lucia Hiriarde Pinochet, in occasione delle
loro nozze d'oro matrimoniali e come pegno di abbondanti grazie
divine», scrive senza imbarazzo il Sommo Pontefice, «con grande
piacere impartisco, così come ai loro figli e nipoti, una benedizione
apostolica speciale. Giovanni Paolo II.» Ancor più caloroso e prodigo
di apprezzamenti è il messaggio di Sodano, che era stato nunzio
apostolico in Cile dal '77 all'88, e che nell'87 aveva perorato e
organizzato la visita del papa a Santiago, trascurando le accese
proteste dei circoli cattolici impegnati nella difesa dei diritti umani.

Il cardinale scrive di aver ricevuto dal pontefice «il compito di far
pervenire a Sua Eccellenza e alla sua distinta sposa l'autografo
pontificio qui accluso, come espressione di particolare benevolenza».
Aggiunge: «Sua Santità conserva il commosso ricordo del suo incontro
con i membri della sua famiglia in occasione della sua straordinaria
visita pastorale in Cile». E conclude, riaffermando al signor
Generale, «l'espressione della mia più alta e distinta considerazione».

Il Vaticano non rese pubbliche queste missive così partecipi. Né lo
fece Pinochet, che pure probabilmente le aveva sollecitate. Si decise
di mantenerle nell'ambito della sfera privata, per timore che
l'eccesso di enfasi attizzasse nuove polemiche. Ma tre mesi dopo
prevalse la vanità del dittatore. I documenti furono portati alla luce
dal quotidiano cileno "El Mercurio". E furono ripresi da "Témoignage
Chrétien", la rivista francese dei cattolici progressisti. Provocando
«reazioni di rivolta, di tristezza e di vergogna», nel ricordo delle
barbare esecuzioni e delle feroci torture perpetrate dal regime di
Pinochet.

Molti lettori indirizzarono al Vaticano lettere di indignazione. Un
gruppo di preti-operai di Caen diede una risposta particolarmente
risentita all'iniziativa del Papa e di Sodano. Opponendo al commosso
ricordo di Wojtyla «l'emozione davanti alla morte del presidente
Allende e di molti suoi collaboratori; davanti alla retata e al
parcheggio dei sospetti nello stadio di Santiago; davanti alle dita
amputate del cantante Victor Jara per impedirgli di intonare sulla sua
chitarra gli accordi della libertà; davanti alle sparizioni, alle
carcerazioni, alle torture». E la Fraternità e la Comunità Francescana
di Béziert espressero la loro costernazione in modo lapidario:
«Durante il potere di Pinochet Gesù Cristo era crocifisso ancora».

Sentimenti di ripulsa che in Francia si sono riaffacciati dopo
l'arresto a Londra del dittatore. E che subito dopo il recente
incontro in Vaticano fra il cardinal Sodano e il sottosegretario
cileno agli Esteri Mariano Fernandez, visto come un tentativo di
attivare il Vaticano in soccorso di Pinochet, hanno riproposto gli
inquietanti interrogativi che accompagnarono la rivelazione dei
messaggi di auguri. Nel '93, Pinochet non era più il capo dello Stato,
ma solo il comandante delle Forze Armate. E Sodano era tornato già da
cinque anni in Italia dove aveva preso il posto di Agostino Casaroli
al vertice della diplomazia pontificia.

Che ragione c'era di elargire al dittatore riconoscimenti così
entusiastici, coinvolgendo anche il papa in prima persona, per una
ricorrenza non così straordinaria che avrebbe al massimo meritato un
asciutto telegramma di felicitazioni? La risposta, a sentire i
cattolici cileni che lavoravano a Santiago per la Vicaria de la
Solidaridad, un organo della curia che per sedici anni - dal '76 al
'92 - si è battuto contro le atrocità della dittatura, è nel feeling
che, nonostante le tensioni provocate dalle denunce dei sacerdoti
socialmente più impegnati e dagli episodi di cronaca più scabrosi, si
era instaurato fra Sodano e Pinochet.

Nel conflitto fra ragion di Stato e difesa dei diritti umani, pur
senza plateali favoreggiamenti, il nunzio apostolico avrebbe
privilegiato il dialogo con il regime, assecondando l'ipocrita
transizione che provoca ancor oggi nel Cile tante lacerazioni. Negli
inevitabili scontri con Pinochet, Sodano avrebbe badato a difendere
l'istituzione Chiesa più che l'incolumità delle vittime perseguitate
dalla dittatura. Certo, erano tempi tremendi. Ed è probabile che
l'approccio sfumato dell'ambasciatore di Wojtyla sia servito a
prevenire una repressione ancor più spietata. È meno comprensibile
che, come dimostra l'estrema cordialità dei messaggi augurali per le
nozze d'oro, a distanza di pochi anni il Vaticano abbia rimosso le
pagine più tragiche della storia cilena e si sia profuso in attestati
di stima verso il carnefice.

La lunga permanenza di Sodano a Santiago è coincisa con un processo di
spaccatura all'interno della Chiesa cilena. Da un lato le frange più
conservatrici del mondo cattolico facevano quadrato intorno alla
dittatura in nome dell'anticomunismo. Dall'altro gli ambienti più
aperti trasformavano la Vicaria de la Solidaridad nel vero simbolo
dell'antipotere. Una divisione che nelle concitate reazioni
all'arresto del generale affiora ancor oggi. Oltre la metà dei
cattolici cileni teme che la soluzione di processare Pinochet in
patria, per la quale si sta affannando il governo Frei, potrebbe
rivelarsi una beffa alla giustizia. In Cile né la magistratura
militare né quella penale (che anche dopo il ritorno della democrazia
si è ben guardata dall'aprire processi alla dittatura) garantirebbero
imparzialità di giudizio. E si scatenerebbe una nuova ondata di
disordini. Solo un pubblico pentimento di Pinochet - ipotesi
considerata inverosimile - introdurrebbe una nota di distensione,
scongiurando il rischio che i mai sopiti rancori sfocino inaltrettanti
regolamenti di conti.

Da circa sette anni la Vicaria de la Solidaridad, che già dopo il
referendum da cui uscì sconfitto Pinochet nell'88 aveva perso la
funzione primaria, si è trasformata in un centro documentazione.
Attraverso i suoi archivi è possibile ricostruire nei dettagli i
controversi rapporti fra una Chiesa di ispirazione progressista e il
generale che si richiamava anche ai principi della fede cattolica per
giustificare la sua azione disterminio.

Già negli anni Venti la forza della Dc cilena si sviluppa intorno alle
attività umanitarie dei sacerdoti che si schierano al fianco dei
poveri e lottano contro il latifondo premendo per la distribuzione
della terra ai contadini. Una sensibilità immune dagli estremismi
della teologia della liberazione, che nel '70 non ostacola l'ascesa al
governo del socialista Salvador Allende. In quel periodo,
l'arcivescovo di Santiago Raúl Silva Henriquez, cardinale dal '61,
accoglie con benevolenza Fidel Castro che prolunga una visita di Stato
in Cile per 25 giorni, e al momento del congedo gli regala una Bibbia.
Dopo il colpo di stato militare (11 settembre '73), accolto con
moderato sollievo anche dalla Dc nonostante il suicidio di Allende,
Henriquez prende le distanze dal regime. E il 18 settembre, una
settimana dopo il golpe, in occasione della festa nazionale,
impartisce una prima umiliazione a Pinochet rifiutandosi di celebrare
come ogni anno il Te deum davanti alle autorità dello Stato nella
cattedrale, e allestendo la cerimonia in una chiesa meno
rappresentativa. Fonda poi l'8 ottobre, insieme ai responsabili delle
altre fedi religiose, unComitato nazionale per la pace che si scaglia
contro le malefatte del regime. Agli attacchi della stampa e
alleminacce dei golpisti, il cardinale risponde alzando il tiro. E a
Paolo VI, che disgustato dal clima di terrore gli offre sostegno,
risponde che pensa di potercela fare da solo. Se il generale non
allenterà la presa, potrebbe incorrere in una scomunica. Ma Pinochet
stringe sempre più il Cile nella sua morsa. Si allentano le
resistenze, si sfalda anche il fronte religioso. Nel '75 è Henriquez
che chiede aiuto a Paolo VI. Che stavolta si dichiara impotente. La
guerra fredda ha procurato qualche consenso internazionale a Pinochet.

Qualche mese più tardi è il tiranno a tentare un'apertura. Dopo
l'uccisione d uno dei leader dell'ultrasinistra, un gruppo di marxisti
si rifugia nella Nunziatura. E allora Pinochet decide di scrivere al
cardinale: questo è un governo cattolico che vorrebbe buone relazioni
con la Chiesa. Con lei personalmente non ci sono problemi. Il problema
è il Comitato. Il cardinale intuisce che dietro le formalità si cela
un ordine. Il generale non tollera più intralci. E il cardinale finge
di obbedire, senza abdicare ai principi. Scompare il Comitato e al suo
posto, come emanazione della sola curia cattolica, nasce agli inizi
del '76 la Vicaria de la Solidaridad. Un rifugio per le vittime del
regime a cui vengono assicurati patrocinio legale e assistenza medica.

In aperta sfida a Pinochet, pochi mesi dopo l'arrivo di Sodano a
Santiago, Henriquez proclama il '78 anno dei diritti umani in Cile. E
indice un convegno internazionale sulla materia. Sodano si defila. E
quando arriva un messaggio augurale del papa, minimizza attribuendolo
al cardinale di Stato Jean Villot.

I rapporti fra la curia e la chiesa si fanno particolarmente aspri
nell'83, decennale del golpe. Henriquez si spinge a definire inumano
il programma economico varato da Pinochet che applicando le teorie
monetariste dei Chicago's boys ha rimesso in ordine i conti dello
Stato sacrificando però i programmi di assistenza sociale per le
classi meno abbienti. E la giunta militare sbatte in carcere i tre
sacerdoti stranieri che più avevano alzato la voce nelle proteste.
Sodano chiede la loro liberazione. E i tre vengono espulsi.Per evitare
fratture più traumatiche, papa Wojtyla, tramite Sodano, invita i
militari a cercare risposte positive alle condizioni e alle situazioni
di violenza. Pinochet, in cerca di legittimazioni, si dichiara in
sintonia con le aspettative del pontefice: il governo cileno è
impegnato nella creazione di un sistema democratico di ispirazione
occidentale e cristiana; il messaggio di Sua Santità è uno strumento
prezioso per la realizzazione di questi obiettivi. Ma appena sorge
qualche contrasto con la curia di Santiago, si affretta a inviare a
Roma Sergio Rillon, il funzionario governativo per le relazioni con il
Vaticano, che non manca mai di sottolineare l'irritazione del
generale. L'anagrafe dà intanto una mano a Pinochet. Per limiti d'età
va in pensione il cardinale Henriquez. E a sostituirlo viene chiamato
Juan Francisco Fresno, un arcivescovo più in sintonia con Sodano, che
non si sottrarràagli scontri con la dittatura ma li condurrà in modo
meno battagliero.

L'84 per Sodano è un anno vissuto pericolosamente. A Santiago, nella
parrocchia di San Francesco si invoca la punizione divina contro i
torturatori di Stato. Colti di sorpresa, i militari dichiarano guerra
alle frange sovversive della Chiesa. E consegnano a Sodano un dossier
da inoltrare in Vaticano, in cui si proclamano salvatori della patria.

Scoppia poi la grana dei terroristi del Mir, presunti killer del
sindaco di Santiago Carlos Urzia, che attraverso i locali
dell'ambasciata francese trovano rifugio negli uffici della
Nunziatura. È una brutta rogna per Sodano. Anche se il Vaticano non ha
firmato la convenzione sull'asilo politico, ragioni umanitarie
sconsigliano la consegna dei ribelli a un governo che non dà alcuna
garanzia sulla regolarità di un processo. Sodano chiede che ai quattro
venga rilasciato un salvacondotto. I militari si irrigidiscono. E
l'ira dell'ammiraglio José Toribio Merino Castro si scaglia verso
l'obiettivo massimo: il papa, infallibile nelle cose divine, fallibile
in quelle umane

È una mancanza di cortesia, è la prudente replica di Sodano che sulla
sostanza però tiene duro e chiede per la prima volta aiuto legale agli
avvocati della Vicaria, istituzione che ha sempre percepito
pericolosamente estranea alla sua linea diplomatica. Snobbava spesso
le sue ricorrenze, alle quali interveniva l'intero corpo diplomatico.
E secondo i racconti che circolavano nelle comunità ecclesiali,
avrebbe dissuaso un cattolico torturato dal sollecitare l'intervento
della Vicaria. Nel braccio di ferro stavolta è Pinochet a cedere.

Dopo circa tre mesi di battaglie legali, i quattro guerriglieri del
Mir ottengono il salvacondotto e salgono su un aereo diretto in
Ecuador. Ma per Sodano le insidie non sono finite. Il sacerdote
francese Pierre Dubois, parroco de La Victoria (quartiere proletario
della capitale), e Carlos Camus, vescovo di Linares, creano nuovi
attriti col regime, lanciando anatemi dai pulpiti.

Nel 1985 Sodano lancia appelli (ascoltati) per la liberazione
dell'attivista dell'opposizione Carmen Hales, sequestrata e picchiata
da gruppi di estrema destra. Ed entra in rotta di collisione col
governo per gli editoriali anti-Pinochet della rivista cattolica
"Mensaje". Ma dopo il fallito attentato a Pinochet nell'86, Sodano
elabora una strategia della distensione che culmina con la visita del
Papa a Santiago. Ai fedeli che esprimono indignazione, il nunzio
assicura che si tratta di una missione esclusivamente pastorale. Ma
anche se Wojtyla incontra esponenti dell'opposizione, il clou del
viaggio è l'apparizione sul balcone presidenziale del pontefice al
fianco del dittatore. La Vicaria viene invece appena sfiorata. Il Papa
saluta i suoi dirigenti nel cortile antistante, senza mettere piede
nei locali.

Sodano lascia Santiago nel giugno '88. E nell'accomiatarsi si dice
preoccupato per «l'attuale situazione del paese, perché vedo che non
vi è un profondo rispetto degli uni per gli altri.» Cinque anni dopo,
a freddo, il segno del suo rispetto lo riserverà al dittatore.



=== 6 ===

dalla Gazzetta del Mezzogiorno, aprile 2005

I politici italiani unanimi: lascia un segno indelebile nella Storia

ROMA - Giovanni Paolo II lascia un segno indelebile nella storia. I
politici italiani, in interviste rilasciate a vari quotidiani, sono
unanimi nel riconoscere la rilevanza del ruolo giocato dal Papa nei
quasi 27 anni di pontificato e nel sottolineare l'importanza
dell'eredità che lascia al mondo intero per gli anni a venire.

«Questo Papa - dice il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi in
un'intervista a `Il Messaggero' - lascia un segno importante nella
storia, ha riportato in primo piano la dignità e i valori della
persona umana. Ha rotto il velo ipocrita delle ideologie ed è riuscito
con il presidente degli Usa Reagan a sconfiggere il comunismo».
«E' una figura straordinaria -aggiunge il premier- riconosciuta e
amata da tutto il mondo. Il Suo calvario fisico è pari alla Sua
grandezza morale e spirituale».

«La sua eredità - afferma invece Francesco Rutelli in un intervento su
`Europa' - è gigantesca; nessun uomo di Stato del ventesimo secolo è
stato testimone e attore di così grandi e profondi cambiamenti. E
nessuna autorità religiosa è stata così profetica e visionaria, dando
al cattolicesimo il senso profondo del suo significato letterale di
universalità».

«Il primo Papa no global della storia», lo definisce in un'intervista
a «La Stampa» il segretario di Rifondazione comunista Fausto
Bertinotti. «Durante tutto il suo pontificato - spiega il leader del
Prc - Wojtyla ha ingaggiato un corpo a corpo con la modernità. Sia
nell'immersione in essa sia nell'inquietudine di fronte a una
secolarizzazione erosiva dei valori della religione. Qualsiasi cosa
fosse in campo, il Papa l'ha vissuta con lo spirito del militante. Nel
bene e nel male».

«Un innovatore, un coraggioso», per il senatore a vita Giulio
Andreotti. «Adesso - spiega sempre a 'La Stampa' - si vuole
politicizzare tutto, e anche in modo sbagliato. Se c'è una persona che
sfugge a queste classificazioni è proprio questo Papa, che è nello
stesso tempo conservatore nella tradizione, ma anche capace di
aperture enormi in tanti altri campi».
«Ha fatto fare alla Chiesa dei passi giganteschi. Per esempio penso
alla revisione della posizione della Chiesa su Galileo. E poi alla
pacificazione con gli Ebrei, all'apertura in dialogo con l'Islam. Un
uomo estremamente moderno».

Insomma, sintetizza a «Il Messaggero» il sindaco di Roma Walter
Veltroni, «un esempio per credenti e non».






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Sesto S. Giovanni, 7 aprile 2006
presentazione del libro di J.T. Marazzani Visconti
IL CORRIDOIO
http://www.cnj.it/INIZIATIVE/jeantoschi.htm#fucina

anche nel settimo anniversario della
AGGRESSIONE DELLA NATO CONTRO LA REP. FED. DI JUGOSLAVIA
http://www.cnj.it/24MARZO99/index.htm

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> http://www.cnj.it/documentazione/documento_costitutivo.htm

Sulla democrazia

Link: http://politics.guardian.co.uk/foi/story/0,,1745684,00.html

LONDRA - Sono magri e dal volto emaciato e sembrano appena usciti da un campo di concentramento nazista. Ma le fotografie pubblicate oggi dal quotidiano The Guardian per la prima volta dopo 60 anni, non sono quelle di internati a Dachau, bensì di presunti comunisti che a partire dal 1947 I britannici torturarono in un centro di detenzione segreto nella Germania del dopoguerra.


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Nella convinzione che la guerra con l'Urss - che era stata alleata di Londra contro Hitler soltanto 18 mesi prima - fosse inevitabile, l'allora ministero della Guerra britannico ritenne giustificabile l'utilizzo di metodi 'sporchì per ottenere informazioni sull'arsenale militare e sui metodi d'intelligence dell'Unione Sovietica.

Secondo il giornale infatti, nel campo di prigionia vicino ad Hannover alcune di queste persone arrestate vennero picchiate a morte o lasciate morire di fame, mentre su altri venivano applicate macchine di tortura prese dai campi di concentramento tedeschi. Moltissime donne vennero imprigionate e torturate, insieme a vere spie sovietiche, ex nazisti ed ex SS. Non è chiaro quante persone furono soggette a tortura, nè per quanti anni il centro restò operativo.

"L'idea che la Gran Bretagna non impiegò la tortura durante la Seconda Guerra Mondiale e nel dopoguerra, perchè considerava tali metodi inefficaci, è un puro e semplice mito che è stato fatto circolare con successo per decine di anni. È ora che venga riconosciuto il fatto che queste torture hanno avuto luogo", ha dichiarato Sherman Carroll della Medical Foundation for the Care of Victims of Torture, secondo la quale le autorità britanniche dovrebbero scusarsi e ricompensare I sopravvissuti.

Una richiesta di scuse ufficiali è venuta anche dal portavoce del partito liberaldemocratico per la Difesa, Nick Harvey, il quale ha affermato: "È troppo tardi per trovare I responsabili, ma non è troppo tardi per il ministero della Difesa riconoscere quanto accaduto". Il ministero della Difesa ha tuttavia respinto le richieste, sostenendo che sta al ministero degli Esteri rispondere delle attività dei centri di detenzione al tempo gestiti dal ministero della Guerra.

Dai documenti declassificati ottenuti dal Guardian emerge che l'allora governo laburista fece grandi sforzi per tenere segrete le torture sui prigionieri, per nascondere - secondo le parole di un funzionario di allora - "il fatto che siamo sospettati di aver trattato I nostri prigionieri in maniera simile agli internati dei campi di concentramento tedeschi".

Ma 60 anni dopo, secondo quanto rivela il giornale, il velo di segretezza steso su questi fatti è ancora lo stesso. Il Guardian quattro mesi fa chiese ed ottenne dal Foreign Office I documenti sulle torture al campo di prigionia. Ma le foto - scattate nel 1947 da un ufficiale di marina che voleva denunciare le torture - erano state rimosse su richiesta del ministero della Difesa e sono state consegnate al giornale sono dopo un appello ufficiale.

Il ministero della Difesa intanto, continua il Guardian, continua a non rilasciare I documenti relativi ad un altro centro di detenzione gestito dal ministero della Guerra nel centro di Londra tra il 1945 ed il 1948, dove ora si crede molti uomini furono soggetti a tortura. Il ministero sostiene di non poter rendere pubblici I documenti perché contaminati con amianto.